martedì 2 ottobre 2018
Nel fondo della notte apro gli occhi di colpo. Buio attorno, la casa silenziosa. Non capisco cosa mi abbia svegliata, né l'ansia che ho addosso. Tesa, come per un allarme. Poi ecco, di nuovo, da una casa affacciata sul cortile un pianto acuto. Il pianto di un neonato di pochi giorni, affamato, imperioso. È un bambino piccolissimo che reclama il seno materno. Riecheggia fra i palazzi addormentati, fra le vie deserte in cui lampeggiano ritmiche le luci gialle dei semafori notturni. Dopo due minuti, d'improvviso il pianto cessa. Mi affaccio al balcone: una finestra, una sola, adesso è illuminata. Mi immagino una giovane donna assonnata che solleva il figlio dalla culla. Nel cortile, ora, il silenzio è tornato assoluto. Mio marito e i ragazzi dormono. Soltanto io mi sono svegliata, come fosse suonato un segnale a me noto. Un codice. Come se fosse urgente un mio alzarmi, un mio fare. Sono passati vent'anni dalla nascita di Caterina, l'ultima. Ma quanto è rimasto impresso nel fondo della mente quel timbro tagliente, il pianto di un figlio che vuole il latte. Come un imperativo, come un marchio. Il sonno delle madri, è più leggero. Una parte di me, tanti anni dopo, dormendo resta ancora in allerta, quel marchio scritto per sempre nella memoria.
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