sabato 21 maggio 2011
Morire come le allodole assetate dal miraggio / o come la quaglia / passato il mare / nei primi cespugli / perché di volare / non ha più voglia. / Ma non vivere di lamento / come un cardellino accecato.

Anche per ragioni cronologiche, non ho potuto mai dialogare con un poeta che amo profondamente, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), pur avendo conosciuto e incontrato spesso il suo discepolo prediletto e amico Leone Piccioni. Così, ogni tanto idealmente ascolto il poeta sfogliando le sue raccolte e soffermandomi su qualche pagina. Oggi ho davanti a me i versi della notissima Agonia che so ormai a memoria. C'è dolore e dolore, così come non tutte le morti sono uguali pur meritando lo stesso rispetto. Il lamento del cardellino accecato dalla crudeltà del cacciatore che lo usa come richiamo è, certo, straziante, ma è drammaticamente senza approdo. La vita che trascina è amaramente senza sbocco e significato.
Per contrasto, ecco il morire di un'allodola o di una quaglia che si sono gettate nel «folle volo» della ricerca dell'infinito, degli spazi immensi, della luce del sole. Certo, sono ormai stremate e in agonia, ma alle spalle hanno un'avventura esaltante e unica e quindi un'esistenza piena e realizzata. La parabola è chiara: la vita non dev'essere un lamento statico, una rassegnazione atroce, un incubo a cui ci si sottomette, ma una ricerca, una corsa, un volo. In noi ci sono straordinarie possibilità, c'è un'apertura naturale verso l'alto, la bellezza, il gratuito, il mistero, il divino. Dobbiamo cercare di evadere dal perimetro della nostra gabbia, anche a costo di perdere sangue. Se continuiamo ad accontentarci delle cose piccole, non saremo mai capaci di compiere quelle grandi.
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