giovedì 24 marzo 2022
Una stazione del metro di Kiev. È suonato l'allarme. Nella luce giallastra tutto è color cemento. Ma due bambine sugli otto anni giocano. Una si attacca alla ringhiera della scala, l'altra si lascia andare sullo scivolo per i passeggini. Una è biondissima, l'altra bruna. Fanno a gara a chi arriva prima. Poi di corsa risalgono. Ridono, ridono - come se la guerra non ci fosse. Mesi fa un'anziana lettrice di “Avvenire” mi aveva raccontato che durante la guerra, a Milano, lei bambina al suonare dell'allarme correva con i genitori nel grande rifugio a Porta Volta, vicino al Teatro Smeraldo. I bambini erano tanti, là sotto, nell'oscurità a stento rischiarata da qualche debole lampadina: e dopo poco in due o tre cominciavano a rincorrersi, e altri li seguivano, finché le loro voci chiare colmavano quel nudo bunker, nell'ora più buia. I bambini giocano. Se stanno appena bene, giocano ovunque. Per loro esiste il presente, e il futuro è astratto e lontano. Quella lettrice diceva, però, che quando lo schianto delle bombe si faceva vicino, le mamme chiamavano i bambini accanto, per dire il rosario.
M'immagino, nell'ombra, quelle covate di bambini sudati, ora ammutoliti di paura. Poi, appena finito l'allarme, rieccoli: su per le scale, di corsa, vocianti. I bambini finché hanno fiato giocano. (Per questo sono un inesauribile miracolo. Per questo, ne abbiamo tanto bisogno).
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