sabato 13 dicembre 2003
Perché la bruttezza dell'anima riesce a scappare dal cofano interno per ricoprire la faccia? La bruttezza fisica non mi fa paura. È l'altra che temo, perché è profonda e viene da così lontano. Sul viso si attacca e fa il suo danno. Tutto quanto è negli occhi. Quando sono bagnati da un liquido giallastro, vuol dire che sono contaminati dalla bruttezza dell'anima. Ho avuto occasione di incontrare una volta e di parlare a lungo con lo scrittore marocchino (è nato a Fez nel 1944) Tahar Ben Jelloun, che vive a Parigi e scrive in francese. Ne ricordo non solo la grande umanità e semplicità, nonostante la fama mondiale di cui gode, ma soprattutto la forte passione per un dialogo tra islam e cristianesimo senza chiusure o irrigidimenti. Da uno dei suoi romanzi che avevo letto tempo fa, A occhi bassi (Einaudi 1993), ho estratto il ritratto di una persona cattiva, colta attraverso il segnale degli occhi. Già Michelangelo ripeteva nelle sue Rime che l'anima s'affaccia dagli occhi e si rivela. Oggi, festa di santa Lucia, tradizionalmente legata al dono della vista a causa del suo particolare martirio, vorrei evocare proprio il valore del volto come espressione dell'interiorità. Il filosofo e sociologo berlinese George Simmel (1858-1918) era convinto che «il viso è il luogo in cui i processi interiori si coagulano in forme solide». Ebbene, senza cadere negli eccessi positivistici dello psichiatra veronese Cesare Lombroso (1835-1909) che vedeva nel profilo di un volto i tratti del criminale, dobbiamo ritrovare la capacità di guardare più spesso in faccia le persone. Solo così riusciremmo a far cadere prevenzioni e odio, paure e sospetti, perché troveremmo i tratti di un'umanità che, nel bene e nel male, ci appartiene e ci rende un po' simili e fratelli. Il dialogo degli occhi rimane, comunque, sempre una strada supplementare preziosa di comunicazione e di comprensione intima.
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