Giorgio Manacorda nei meandri della poesia impossibile e necessaria
venerdì 9 dicembre 2016
Che cos'è la poesia? Perché è mentalmente, antropologicamente, perfino neurologicamente necessaria? A questi interrogativi ha tentato di rispondere con inusuale coraggio non un filosofo, non un neuroscienziato e neppure un critico letterario o uno studioso di estetica. È stato invece un poeta, Giorgio Manacorda, che nella sua tarda maturità ha sentito il bisogno di riflettere a fondo e più sistematicamente possibile sul perché l'idea di una “fine dell'arte” e della poesia è stato un nichilistico controsenso novecentesco, un'impossibilità dimostrata dai fatti. Negli ultimi decenni la poesia ha perduto parte del suo prestigio, della sua autorità e aureola culturale. Non si vedono più in giro filosofi come Croce o linguisti come Jakobson a definirla, né poeti come Eliot e Montale a difenderla. Eppure tutti credono ancora che scrivere poesie, questa misteriosa attività, così innocua e così tradizionale, forse inutile, forse viziosa, sia invece un valore irrinunciabile, una terapia mentale, un diritto umano, un mezzo di conoscenza, autocoscienza e difesa della vitalità della lingua. Ho detto “tutti credono” nella poesia e quasi tutti o fin troppi la scrivono. Pochi la leggono, sanno leggerla e soprattutto quasi nessuno la pensa. Lo ha fatto Manacorda elaborando nel corso di circa un ventennio un libro come La poesia (Castelvecchi, pp. 150, euro 18,50). Libro composito e stratificato nel quale l'autore usa e mette in gioco tutti i dati della sua cultura e autobiografia letteraria. Parla del tramonto del '900 con la scomparsa di Penna, Caproni e Pasolini. Parla di neoavanguardia e di generazione del '68. Cita attuali scrittori “pensanti” come Walter Siti, Paolo Febbraro e Matteo Marchesini. Discute teorici e critici come Croce, Heidegger, Debenedetti, Adorno, Barthes, Fortini e Cases per arrivare, «oltre il Novecento», al «pensiero emotivo» delle neuroscienze e alla fisica teorica che cerca di afferrare l'essenza di ciò che chiamiamo materia. L'ultima parte del libro è quella che capisco e condivido meno. Arrivati all'impossibilità di definire sia la mente che la materia, non vedo perché voler definire in generale e una volta per tutte la poesia. Trovo strano che sia proprio un poeta a cercare soddisfazione in una nuova teoria della poesia. Le pagine anche letterariamente più efficaci mi sembrano quelle in cui viene ritratto il personaggio del Critico militante: «poeta egli stesso, sia che scriva poesie sia che non le scriva».
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