
Quando l’attualità si fa minacciosa, quando la pace cessa di essere un’evidenza tranquilla qual era stata, per decenni, alle nostre latitudini, si ascolta con orecchio diverso la settima beatitudine di Gesù: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Ne avvertiamo ancor più l’urgenza, ma anche la difficoltà: che cosa significa essere «operatori di pace»? Non è sufficiente proclamarsi sostenitori della pace. Gesù non ha detto: “Beati i pacifisti”, e del resto la storia ci insegna che volere la pace non basta a evitare la guerra, la quale può imporsi a noi nonostante tutto.
La beatitudine non riguarda coloro che vogliono fuggire la guerra a tutti i costi, ma piuttosto coloro che fanno, concretamente, opera di pace. Non di tratta solo del lavoro dei diplomatici che lavorano ai negoziati internazionali. La causa ultima delle guerre non è geopolitica: anche le costruzioni politiche meglio pensate, che possono utilmente far arretrare la guerra, sono però incapaci di venirne definitivamente a capo. Perché la causa ultima risiede nel cuore dell’uomo, nel suo bisogno di dominare un prossimo che si rifiuta di amare. Se noi non siamo dei diplomatici attivi nella risoluzione dei conflitti, ci resta ancora un campo formidabile in cui lavorare per la pace: il nostro stesso cuore. Forse meriteremo allora d’esser chiamati figli di Dio!
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