sabato 28 novembre 2020
Quando Giovanni Paolo II si "inventò" la Giornata mondiale della Gioventù, furono in molti, anche – e forse soprattutto – all'interno della Chiesa, a sorridere con sufficienza. Era la metà degli anni Ottanta, in Occidente quelli degli yuppies e dell'edonismo reaganiano, in Italia della "Milano da bere". E nonostante l'incredibile risposta dei giovani all'appuntamento del 1984 per il Giubileo straordinario della Redenzione, nella domenica delle Palme, e a quella di dodici mesi più tardi per l'Anno internazionale dei giovani, indetto nel 1985 dall'Onu, a prevalere rispetto all'iniziativa di Wojtyla era lo scetticismo. "Vedrete, sarà un fallimento...", diceva chi la sapeva lunga.
Come siano poi andate le cose lo sanno, anzi l'hanno visto, tutti. Alla prima edizione del 1987, a Buenos Aires, i due milioni di ragazze e ragazzi accorsi nella capitale argentina spazzarono via non tanto e non solo ogni precedente record, da Woodstock all'isola di Wight, ma anche e soprattutto i dubbi. Un qualcosa di impensabile che si sarebbe ripetuto senza conoscere flessioni, negli anni. Capace di rinnovarsi sempre, continuando ad attirare milioni di giovani in, e da, tutti i continenti. Un evento la chiave del cui successo va ricercata, piuttosto che in chissà quali elucubrazioni sociologiche, nella semplicità con cui Giovanni Paolo II, e i suoi successori dopo lui, si sono rivolti ai giovani, non tanto cercando di "parlare il loro linguaggio", come molti fanno o provano a fare, quanto dando loro fiducia, considerandoli non comparse della vita, o solo possibili consumatori, ma protagonisti: «Io mi fido di voi».
Basti vedere come Francesco s'è rivolto loro domenica scorsa, nella Messa per il passaggio della Croce delle Gmg dai ragazzi panamensi ai portoghesi, durante la quale ha incoraggiati i giovani, tutti quelli del mondo, a non rinunciare «ai grandi sogni». A non accontentarsi «del dovuto», perché «il Signore non vuole che restringiamo gli orizzonti, non ci vuole parcheggiati ai lati della vita, ma in corsa verso traguardi alti, con gioia e con audacia». È una questione di fondo, in quanto le persone «non sono fatte per sognare le vacanze o il fine settimana, ma per realizzare i sogni di Dio in questo mondo. Egli ci ha reso capaci di sognare per abbracciare la bellezza della vita. E le opere di misericordia sono le opere più belle della vita». Insomma, «vivere, non vivacchiare». Avendo il coraggio di «scegliere» senza lasciarsi «anestetizzare» dall'omologazione. Per opporsi a tutto ciò che allontana dalla vera vita: c'è «la febbre dei consumi, che narcotizza il cuore di cose superflue. C'è l'ossessione del divertimento, che sembra l'unica via per evadere dai problemi e invece è solo un rimandare il problema. C'è il fissarsi sui propri diritti da reclamare dimenticando il dovere di aiutare. E poi c'è la grande illusione sull'amore, che sembra qualcosa da vivere a colpi di emozioni, mentre amare è soprattutto dono, scelta e sacrificio». Per questo scegliere, «oggi, è non farsi addomesticare dall'omologazione, è non lasciarsi anestetizzare dai meccanismi dei consumi che disattivano l'originalità, è saper rinunciare alle apparenze e all'apparire. Scegliere la vita è lottare contro la mentalità dell'usa-e-getta e del tutto-e-subito, per pilotare l'esistenza verso il traguardo del Cielo, verso i sogni di Dio». Scegliere, dunque, e progettare. E progettare in grande, senza paura, senza lasciarsi limitare da calcoli utilitaristici ma seguendo sogni e ideali, sapendo che «il Signore si basa sulle nostre scelte, trae solo le conseguenze delle nostre scelte, le porta alla luce e le rispetta». Solo su quelle, e nient'altro.
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