Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo.
È certamente forte questa frase che trovo in un articolo che sto leggendo. L'ha scritta il celebre autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift (1667-1745), il quale era stato anche pastore anglicano e spesso intingeva la sua penna nell'ironia piuttosto feroce (come quando prendeva di mira le prediche noiose e le ipocrisie inglesi). A questa sua dichiarazione sui rischi insiti alle fedi si può accostare quella di un filosofo suo connazionale e contemporaneo, David Hume, il quale osservava che «gli errori della filosofia sono ridicoli, mentre quelli della religione sono pericolosi». Ai nostri giorni abbiamo davanti agli occhi la verità di questo asserto non solo col fondamentalismo religioso ma anche con la fede usata come schermo per coprire interessi personali o nazionali, per ottenere esiti politici che poco hanno a che fare con la vera spiritualità.
La frase di Swift, però, ha una sfumatura importante. Egli, infatti, sottolinea che, se avessimo una fede profonda, piena, autentica, genereremmo amore, pace, liberazione. Il limite è appunto nel fatto che noi abbiamo una religiosità su misura, modellata sui nostri interessi e su un apparente buon senso. In questa luce la fede diventa uno strumento che al massimo abbellisce le nostre azioni neutre e copre quelle vergognose, ma non incide trasformando moralmente la nostra vita. Si configura, così, quel peccato che Cristo ha sempre denunciato con asprezza come avevano fatto i profeti, l'ipocrisia. La religione è un manto che avvolge orgoglio, egoismo e persino aggressività. La vera fede è, invece, lievito che trasforma, acqua che feconda e purifica.
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