giovedì 16 luglio 2020
Possiamo ancora esercitare qualche forma di autorità nei confronti dei nostri figli? La domanda mi sembra importante; i nuovi genitori infatti hanno maturato una grande sensibilità sul diritto all'amore di ogni nuovo nato, ma forse una minore sensibilità verso un altro suo fondamentale diritto: quello di venire educato, cioè accompagnato a conoscere alcuni orientamenti necessari a navigare nella vita. Il dizionario definisce l'autorità come "la facoltà legittima di esercitare un potere"; chi ha autorità perciò esercita un potere, cosa che comporta ammettere una asimmetria nella relazione. Non si può negare che nel rapporto genitore-figlio (bambino o adolescente) sia presente un'asimmetria; non si tratta di una differenza di valore, ma di esperienza: la fragilità del bambino chiama alla responsabilità l'adulto cui è affidato, perché se ne prenda cura e insieme lo guidi a fare esperienza del mondo che dovrà affrontare. Proprio per questo non esiste (non può esistere) una relazione educativa che possa definirsi neutrale; che lo si voglia o no l'adulto influenza sempre il bambino: con le parole, il comportamento, lo sguardo, gli trasmette la soddisfazione, la delusione, le aspettative che nutre verso il suo modo di essere. La questione centrale dell'educazione è perciò: in che modo l'educatore vuole esercitare la propria inevitabile influenza? Per far fronte a questa questione è necessaria una domanda-chiave: cosa riteniamo sia il bene per la persona affidata alle nostre cure? La risposta fa appello al sistema di valori, espliciti od impliciti, di colui che deve usare la propria autorità per educare. Ma all'interno della famiglia il tema dell'autorità è declinato in modo diverso dal padre e dalla madre, e ciò che decide della differenza è il loro diverso rapporto con il tema del bisogno. La madre, che ha tenuto a lungo il figlio dentro di sé, ha con lui un forte legame biologico; sente dunque il compito primario di garantire la sua sopravvivenza e sviluppa un "codice" che la spinge a proteggerlo dall'esperienza della privazione e del dolore. Nel rapporto con la madre il bambino scopre la fiducia che i suoi bisogni verranno accolti, ma insieme tende a leggere il proprio bisogno come un diritto che va sempre soddisfatto. Il padre invece entra nella vita del figlio in modo indiretto, attraverso la madre; la sua paternità inizia con un atto volontario di riconoscimento del figlio: il loro legame ha dunque un fondamento meno biologico e più culturale. Questa maggiore "distanza" permette al padre di sentirsi meno ricattabile dai bisogni del figlio, e gli dà la possibilità di sviluppare un "codice" volto ad incoraggiarlo all'autonomia e ad apprendere come far fronte alla sofferenza e alla fatica. Nel rapporto con lui il figlio può imparare che il bisogno è qualcosa che si può controllare. Anche se (come ha scoperto con la madre) i suoi bisogni hanno diritto all'ascolto, non ogni bisogno può né deve venire per forza soddisfatto: solo imparando il controllo diventiamo liberi di scegliere, e solo se impariamo ad aspettare e a scegliere, avremo accesso al desiderio. La diversità dei "codici" porta facilmente a confliggere quando si tratta di decidere le modalità da tenere nell'educazione dei figli. La madre teme che il padre eserciti un'autorità tirannica che mortifica il figlio, che lo respinge o che lo allontana. Ma anche il padre, pur intuendo il valore del codice materno, lo teme: ha paura di una modalità simbiotica che trasforma il bambino in tiranno, ne soffoca la crescita e delegittima la sua autorità. Che fare dunque? Dobbiamo capire che non siamo intercambiabili: il nostro ruolo è specifico e prezioso, e ognuno dei due deve riconoscere, accettare e sostenere la legittima modalità dell'altro, perché possano integrarsi. Ci aiuterà chiederci cosa è "il bene" per quel figlio, immaginando che tipo di uomo o di donna ci piacerebbe vedere in lui adulto; avremo così meno paura di esercitare la nostra autorità nei suoi confronti per dirgli i sì e i no che servono a crescere.
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