martedì 15 giugno 2004
L'uomo è miope e per paura di scivolare sul niente si aggrappa al pieno, agli oggetti. E non si accorge dell'utilità del vuoto. Abbiamo spesso condannato in queste righe il vuoto interiore della società contemporanea: tutto è diventato leggero, vacuo e vano, dal pensiero all'amore, dallo stile di vita alla stessa morale che dovrebbe guidare le azioni. Questa volta, invece, ci permettiamo di intonare una sorta di elogio del vuoto e lo facciamo con l'annotazione che abbiamo desunto dal bel libro di ritratti narrativi scritto da un poeta, Paolo Ruffilli, Preparativi per la partenza (ed. Marsilio). È una galleria di figure a loro modo rivoluzionarie nel rompere le maglie di una razionalità scontata e talora stanca e banale. L'idea che proponiamo è, dunque, quella di un vuoto che si oppone non a una pienezza sostanziosa ma a un'anima colma di cose, che si aggrappa alle cose quasi per restare in piedi e trovare un significato. L'accumulo dell'avaro, lo spreco del consumatore, l'eccesso di oggetti domestici, l'acquisto frenetico sono tutti indizi di una paura del nulla e della morte. Il distacco, lo spazio libero e bianco dello spirito, il respiro sereno e non ingozzato dall'ingordigia aprono la via all'infinito, all'interiorità, a Dio. Nell'Enrico V Shakespeare ha una bella frase che ben s'adatta al nostro tema:
«Il vecchio proverbio ha ragione: Il vaso vuoto è quello che ha il suono più ampio» (IV, 4). Anche Cristo - dice S. Paolo - «svuotò se stesso» per accogliere in sé l'umanità, in un gesto di amore e di donazione (Filippesi 2, 7).
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