sabato 3 febbraio 2018
Oggi, probabilmente, solo chi ha cinquant'anni (o più) ricorda cosa sia la sedia gestatoria. Ossia quella sorta di trono mobile, montato su una portantina a spalla, sulla quale sedevano i Papi nelle cerimonie pubbliche per essere meglio visibili dai fedeli.
A mandarla in soffitta fu papa Wojtyla, dopo che inutilmente ci aveva provato Giovanni Paolo I: raccontano che alla prima udienza dopo l'elezione, quando gli spiegarono i perché e i percome l'uso di quella sedia fosse assolutamente necessario, Wojtyla annuì convenendo con i suoi interlocutori. Quindi disse «andiamo», e si avviò a piedi dentro San Pietro, tra lo sconcerto del seguito. Sconcerto che si sarebbe trasformato in terrore quando, al termine della prima Messa in piazza, Giovanni Paolo II attraversò a larghe falcate il sagrato per andare incontro alla folla. Benché con un carattere molto diverso, timido e riservato com'era, anche Benedetto XVI non si sottraeva a questo contatto, e amava stringere le mani delle persone al di là delle transenne e scambiare con ciascuna di esse qualche parola, anche solo un «come sta?», che per l'occasionale interlocutore valeva più di mille discorsi. E poi è venuto Francesco, lo ricordavamo su questa stessa colonna giusto un paio di settimane fa, che in questo “farsi vicino” ha infranto anche le ultime barriere che le ragioni di sicurezza avrebbero consigliato. Fino a generare veri e propri momenti di panico come accadde nel 2013 in Brasile quando, per ragioni rimaste oscure, la sua macchina non blindata rimase isolata e bloccata tra la folla; panico, si diceva, per tutti (e soprattutto per gli uomini della sicurezza), tranne ovviamente che per papa Bergoglio, il quale sporgendosi dal finestrino continuava a stringere le mani che si tendevano verso di lui.
Impossibile non ripensare a tutto questo sentendo l'altro giorno Francesco, nell'omelia della messa mattutina a Santa Marta, ribadire il suo «no» ai «pastori rigidi», quando essi invece «devono essere teneri e vicino alla gente... e fare come Gesù che “si butta” in mezzo al popolo e camminare tra e con le persone avendone cura». Gesù, ha detto il Papa, «non apre un ufficio di consulenze spirituali con un cartello: “Il profeta riceve lunedì, mercoledì, venerdì dalle tre alle sei l'entrata costa tanto o, se volete, potete fare un'offerta”. No, non fa così Gesù; e neppure Gesù aprì uno studio medico con un cartello: “Gli ammalati vengono dal giorno... e saranno guariti”». No, non lo fa perché «Gesù si butta in mezzo al popolo». E allora è a questa figura di pastore, la figura «ci dà Gesù», che bisogna tendere, ha aggiunto Francesco raccontando della “sana stanchezza” di un sacerdote santo che secondo questo stile «accompagnava il suo popolo»; stanchezza «reale, non ideale», la stanchezza «di chi lavora e vive tra la gente con amore come Gesù».
E certo, questo stare “in mezzo” comporta che Cristo sia «stretto e toccato» dalla folla, come ci dice il Vangelo, e così in effetti, ha aggiunto papa Bergoglio, fanno anche oggi i fedeli durante le visite pastorali. Si tratta, ha spiegato, di un modo per «prendere grazia». E noi vediamo che Gesù non si tira mai indietro, anzi «paga» pure con «la vergogna e la beffa, per fare il bene». Vengono in mente le tante parole, spesso durissime, spese da papa Benedetto e dallo stesso Francesco verso i “cattivi pastori”, più preoccupati magari della carriera che della missione. Ma, ci ricorda ancora una volta oggi papa Bergoglio, «al vescovo o al prete che non sa farsi vicino, manca qualcosa: forse è un padrone del campo, ma non è un pastore. Il pastore al quale manca tenerezza sarà un rigido, che bastona le pecore. Vicinanza e tenerezza: lo vediamo qui. Così era Gesù».
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