Due punti di vista Dall'alto o dal basso?
venerdì 31 luglio 2020
Mi sembra che ci siano, o sono state adottate, soprattutto due diverse prospettive critiche nella riflessione sulla pandemia. La prima prospettiva, in modo più o meno coerente, è quella che concentra la sua diffidenza e le sue denunce contro lo Stato e le normative che emana, anche a costo di trascurare e sottovalutare, fino quasi a negare, la realtà di un'emergenza provocata da centinaia di migliaia di contagi e di vittime nelle più diverse zone del mondo, soprattutto in quelle più ricche e organizzate. Il virus è stato interpretato, così, come un semplice pretesto per intensificare e per estendere il controllo dello Stato sulla vita dei cittadini. Coloro che si sono preoccupati soprattutto per lo “stato di eccezione” o di emergenza sono partiti dalla teoria secondo cui ogni forma statale ha di per sé, inevitabilmente, una vocazione totalitaria, anche quando si tratta di regimi formalmente liberal-democratici. La conseguenza deduttiva, aprioristica, di questa idea è che per difendere la propria libertà i cittadini devono rifiutare l'obbedienza alle misure decise dalle istituzioni statali per contenere e contrastare l'espansione dei contagi. In sostanza il rischio di ammalarsi e morire sarebbe secondario e perfino pretestuoso, mentre la vera emergenza sarebbe la lotta per la “vita libera” contro il controllo esercitato da normative che sarebbero autoritarie e liberticide. Questa prospettiva critica ha un vantaggio politico e retorico: ci si può limitare ad accusare lo Stato, i politici, le regole che mirano solo a “sorvegliare e punire”. L'altra prospettiva è meno geometricamente dedotta e a partire dalla pandemia mette piuttosto in discussione l'intero modo di vivere economico-sociale (nonché culturale e morale) a cui siamo stati abituati e a cui non vogliamo rinunciare. In questa prospettiva non è lo Stato, è piuttosto il Mercato a dominare le nostre società ipersviluppate. Si vede cioè il controllo sociale “totalitario” come un risultato del consumo intensivo di merci, tutte in varia misura culturali, perché veicolo di valori e stili di vita. Quindi più che i teorici dello Stato e della legge, è più utile leggere i sociologi dell'industria culturale o industria della coscienza, che si estende dalle comunicazioni di massa alla moda, dal turismo allo sport, al feticismo scientista. Più che di controllo statale dall'alto, si tratta di conformismo sociale indotto, prodotto dal mercato. Si tratta di una “servitù volontaria” di massa, di obbedienza collettiva e coatta, anche inconsapevole, a ordini che nessuno ha dato. È la socialità stessa a garantire l'autocontrollo nel momento in cui si presta fede a ogni genere di “falsa libertà” che il mercato offre. Più che accusare qualcuno che sta in alto, si dovrebbe criticare il proprio collettivo modo di vivere, la propria cosiddetta normalità sociale. E questa è sempre la cosa più difficile e meno tranquillizzante. La pandemia è nata da un mercato di carni: e una scienza biologico-medica incapace di fare le previsioni più ovvie ne ha favorito la diffusione.
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