Due indimenticabili lezioni per quest'oggi
mercoledì 15 aprile 2020
Oggi, esattamente settantatré anni fa, grazie allo sport cadde fragorosamente una barriera. Era il 15 aprile del 1947 quando negli Stati Uniti, nazione leader del mondo uscito dal secondo conflitto mondiale, all'Ebbets Field di Brooklyn, davanti a oltre 23.000 spettatori, entrò in un campo della principale lega di baseball, per la prima volta della storia, un atleta di colore. Si trattava di Jackie Robinson, un ragazzo di ventotto anni, il primo afroamericano a scendere in campo nella Major League. Lo sport americano aveva già applaudito grandi campioni di colore, come Jesse Owens ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936 (dove il fratello maggiore di Jackie, Matthew “Mack” Robinson aveva vinto la medaglia di argento sui 200 metri) o al pugile Joe Luis. Quelli, tuttavia, erano sport individuali. Negli sport di squadra una legge non scritta, quelle più difficili da scardinare, aveva fatto sì che si continuasse a vivere in una specie di mondo parallelo. Così era nel baseball, dove esisteva una “Negro League” fatta per soli giocatori (e spettatori) di colore e la Major League dove, da oltre sessanta anni, tutti gli atleti erano bianchi. Non per regolamento ma, peggio, per consuetudine.
La svolta avvenne nell'ufficio di Branch Rickey, manager dei Brooklyn Dodgers. Robinson era diventato la stella della “Negro League” e Rickey lo convocò mettendolo di fronte a una grande responsabilità: «I numeri dicono che sei un giocatore strepitoso, ma io voglio sapere del tuo carattere», lo incalzò. Robinson replicò: «Ok, lei vuole un nigger che non abbia il coraggio di rispondere alle provocazioni». «Al contrario – sentenziò il manager – voglio uno che abbia così tanto fegato da non rispondere alle provocazioni». Affare fatto. Siglarono un contratto che prevedeva che Robinson non avrebbe mai replicato, sputi in faccia inclusi. Arrivarono parole pesanti come macigni e umiliazioni di ogni genere: dai suoi compagni, affatto entusiasti della situazione, da molti avversari che tentarono di organizzare uno sciopero per impedire che lo staff tecnico dei Dodgers lo schierasse in campo e, naturalmente, dagli spettatori di tutti gli stadi dove giocava. Ma si sa, spesso sono la tenacia e la capacità di sopportare con dignità e determinazione a cambiare il corso della storia.
Il primo punto di rottura arrivò nel 1948 quando di fronte al pubblico ululante di Cincinnati, il capitano dei Doodgers, Pee Wee Reese, cinse con il suo braccio le spalle del compagno di colore, gesto scolpito in una statua esposta nel 2005 al KeSpan Park di Coney Island. Da quel giorno nulla fu più uguale a prima. Il muro si era spaccato, una breccia aperta, non si sarebbe mai più tornati indietro. Gene Hermanski, un altro compagno di squadra, propose a tutti i Dodgers di indossare la maglia n.42, per confondere eventuali cecchini, viste le ripetute minacce di morte a Robinson. Nel 1955 arrivò anche un titolo, appena prima della fine della sua carriera e all'inizio del manifestarsi dei sintomi del diabete che lo condurrà alla morte, appena cinquantatreenne.
Robinson è stato un ottimo giocatore di baseball, certo, ma di ottimi giocatori se ne sono visti tanti. Molti meno sono stati quelli capaci di cambiare un po', oltre allo sport, anche il mondo. Robinson fu citato anche dal professor Randy Pausch, nel corso della sua straziante ultima lezione universitaria, nel 2007, quando sapendo di essere vicino alla morte a causa di un tumore incurabile al pancreas, regalò ai suoi studenti un'ora e un quarto di quelle che cambiano la vita (la lezione intera è consultabile su YouTube). Proprio per spiegare come raggiungere i propri sogni di bambino, Pausch citò Robinson: «Non lamentatavi e lavorate sempre duramente». Due lezioni, quelle di Jackie Robinson e Randy Pausch da andarsi a studiare in questi giorni che non passano mai e che segneranno, nel bene o nel male (la scelta spetta a noi) così tanto la nostra vita futura.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: