giovedì 17 gennaio 2013
Milano, 1990. Mio padre è morto all'alba, in ospedale. Quando arrivo, nella camera ardente non c'è ancora nessuno. Lui, sembra che dorma. C'è qualcuno in me che non realizza, che non vuole capire. Come fossi ancora bambina. (Per i bambini piccoli la parola "morte" non rappresenta nulla, è un concetto astratto). Dopo un po' me ne vado, dicendo fra me: papà, ti lascio dormire, se sei così stanco. Allungo una mano a carezzare la sua: è fredda, e sussulto – come fossi sul punto di aprire gli occhi.Per molti giorni mi pare di averlo sempre accanto. Per mesi, quando mi chiedo come fare un'inchiesta, automaticamente alzo il telefono sulla scrivania e digito: 02 349..., il suo numero. Mi interrompo solo all'ultima cifra, e riattacco. È come se l'idea che è morto bussasse per entrare, ma io non aprissi.Infine, sono passati tre mesi, in autostrada sto guidando, da sola. D'improvviso la coscienza che mio padre è morto si palesa, lacerante. Mi fermo sulla corsia d'emergenza, perché piangendo non vedo più dove vado.Quanto tempo occorre, dopo un lutto, per capire che è vero? Sembra che la nostra mente si barrichi, ci protegga; e, come si fa con i bambini, parli solo quando ha operato in noi una misteriosa pietà. Che, misericordiosa, comincia a cicatrizzare la ferita.
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