sabato 3 settembre 2005
Ti ringraziamo, o Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l'amore che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di piacere. Questa è una delle Quattordici preghiere di Robert Louis Stevenson (1850-1894), il geniale inventore dell'Isola del tesoro e del Dottor Jekyll e del signor Hyde. Egli fa sfilare davanti ai nostri occhi le realtà semplici della vita: la casa, la famiglia, la pace, l'attesa, la salute, il lavoro, la natura. Solo quando viene a mancare una di esse, noi ci accorgiamo della loro importanza e sentiamo che la nostra esistenza viene quasi lacerata. Basta solo un esempio, che ai nostri giorni acquista un suo peso drammatico: il lavoro viene meno e in una famiglia piomba la paura e tutto sembra incrinarsi. Ma l'osservazione che vorrei fare è un'altra e si fissa sul verbo d'apertura, «ringraziamo». È curioso che nello stesso libro biblico delle preghiere, il Salterio, le suppliche e i lamenti siano quasi un terzo dei 150 Salmi, mentre i ringraziamenti siano solo una decina. Quando si è in difficoltà, si prega; superato l'ostacolo, si dimentica il dono e il fiore della gratitudine non riesce ad attecchire. Questo è vero anche a livello di relazioni umane. Il dire grazie dovrebbe essere un atteggiamento costante anche nelle piccole cose. Un proverbio arabo ricorda che «l'aria è una realtà ovvia, ma guai a non respirarla!». È questo un modo per ammonirci che esistono componenti semplici e quotidiane dell'essere e della vita che sono preziose, come l'aria, la luce, l'acqua, ma l'assuefazione non ce le fa sentire più come un dono vitale di cui ringraziare il Creatore.
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