venerdì 17 febbraio 2006
Talora noi obbediamo allo stesso impulso che induce l'uomo a tentare il pericolo, a toccare un filo elettrico, a sporgersi da una ringhiera aerea, a saggiare un veleno con la punta della lingua. Il demone della perdizione, cosiddetto, forse. Tutti, almeno una volta in vita, si sono sentiti in balìa di questo "demone della perdizione" che spinge verso il proibito e l'impossibile. È qualcosa di diverso dal rischio perché nell'affidarci all'ignoto ci sono anche probabilità positive di riuscita. Qui, invece, è solo il gusto di voler provare l'ebbrezza della distruzione e della follia. Ne sappiamo qualcosa quando si ha notizia di certi giochi assurdi dei giovani che tentano di varcare la soglia tra vita e morte con un balzo, spesso con esiti fatali. È anche il caso delle corse d'auto, con relative scommesse, su strade urbane col risultato non raro di seminare morte e di imboccare la via del suicidio. La frase da noi citata prende spunto, invece, da una situazione meno tragica. Nel racconto intitolato Se vorrei, apparso sul «Corriere della sera» del 1952, lo scrittore Dino Buzzati immagina la sfida segreta di un impeccabile professore di italiano che, in privato, su un quaderno si abbandona agli svarioni più clamorosi e alle perversioni della lingua italiana praticate dai suoi studenti. Un gusto quasi masochistico del proibito. Nella Gerusalemme liberata il Tasso acutamente osservava che «istinto dell'umane genti è che ciò che più si vieta uom più desia». L'avvio, dunque, può essere innocuo, fin divertente; ma la sfida di andare sempre oltre può alla fine diventare tragico. Attenzione, quindi, alla sottile presa del «demone della perdizione» e ai suoi imprevisti approdi.
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