mercoledì 20 maggio 2020
E ora cominciamo a riprenderci Milano. Un martedì mattina alle 9 uscire dal metrò in Duomo. Ci si toglie i guanti di lattice e si va. Senza autocertificazione e, volendo, nella vastità della piazza, senza neanche la mascherina. Quasi liberi, ma cauti. Come un gatto che esca dalla gabbia in cui ha viaggiato per ore: sporge il muso, annusa, perplesso. Sarà la stessa casa di prima? Sì, quasi la Milano di prima, che so a memoria, in cui ad ogni angolo mi aspettano, come i bravi manzoniani, ricordi che si fanno avanti, nettissimi, da lontano; e tagliano, perché sembra irreale che tanto tempo sia passato. Ma, almeno, stamattina la città sta uscendo dalla quiete plumbea che l'ha avvolta per due mesi. C'è qualcosa nell'aria che già mi rassicura, anche se molte saracinesche ancora sono calate. Cos'è?, mi domando senza capire esattamente, mentre cammino verso il Cordusio. Nella piazza si incrociano, sferragliando sui binari, molti tram, ancora quasi vuoti. Scattano gli scambi – un rumore che è nel Dna della città – poi le vetture jumbo, troppo grosse per queste vecchie vie strette, si allontanano in uno stridio di acciaio. Ecco cosa percepisco, e mi fa sentire a casa: il rumore dei tram ha riempito di nuovo Milano. Come un respiro ora spigoloso, ora sbuffante nello schiudersi delle portiere. Irascibile, quando il conducente scampanella arrabbiato. Malinconico, quando nella notte un tram si allontana verso la periferia in un'eco sorda, e un altro giorno è andato. Poi, in un cantiere sull'angolo della piazza hanno ripreso a lavorare. Brusio di trapani, battere di martelli, dal cortile rombo di betoniere. Un operaio straniero alza con una carrucola grosse zanche di acciaio. Un compagno dall'alto gli grida qualcosa, in una lingua che non è italiano. Anche il fragore di un cantiere è il fiato di Milano. E nel ritrovarlo, dopo tanto silenzio, viene spontaneo ringraziare.
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