Come eravamo: l’eredità semplice e preziosa di Pepi Merisio
lunedì 8 febbraio 2021

C’è un’immagine a cui sono legato delle migliaia scattate da Pepi Merisio, il fotografo bergamasco che mercoledì scorso ci ha lasciati, a 89 anni (era del 1931, ne avrebbe compiuti 90 il prossimo 10 agosto), dopo una vita a raccontare la "sua" epoca, con uno sguardo semplice e luminoso. È il 1966, una coppia di emigranti cammina con un bimbo in braccio, in un campo sterrato, sullo sfondo c’è il Pirellone. Su quel terreno, oggi, ci sono altri palazzi e grattacieli della Milano verticale. Non lontano dalla sede del nostro Avvenire dove Merisio era di casa. In quella foto c’è il sogno di ieri di un pezzo d’Italia, il Meridione, che a Milano veniva a cercare fortuna e a costo di tanti sacrifici alla fine la trovava, garantendosi una vita dignitosa. Una migrazione che non si è mai fermata. Una volta il Sud si lasciava in treno e con le valigie di cartone, adesso con voli low cost e trolley firmati; prima erano soprattutto operai, oggi giovani studenti e laureati, ma la sostanza non cambia. In quella immagine, c’è la nostra storia.

Emigranti a Milano, 1966

Emigranti a Milano, 1966 - Pepi Merisio

In un incontro proprio ai piedi dei grattacieli di Porta Nuova, anni fa, fra il campo di grano di “Wheatfield” (l’installazione di land art di Agnes Denes) e il celebrato Bosco verticale, sorrideva e scuoteva la testa Merisio, ripensando – lui, fotografo della civiltà cittadina – a una sua vecchia foto: «Un uomo guida il trattore in mezzo a un campo di grano e la moglie gli porge il secchio con una tazza per bere. Uno scatto di vita vera. Una situazione famigliare. Il racconto di uno spaccato di vita e di un pezzo di Italia. Il campo in città? Il bosco verticale? Sono operazioni d'immagine, anche belle, ma che si fanno sul cemento. La campagna è un'altra cosa». Non c'era il rifiuto della modernità. Merisio apprezzava il Pirellone di Giò Ponti: «È stato un modello di costruzione che ha fatto scuola, riconciliando i palazzoni con la bellezza. È un grattacielo di cemento armato, una grande opera, che aveva allora un effetto simbolico forte». Il Pirellone, come la Torre Velasca. Simboli della grande Milano. «I quartieri di grattacieli invece uniformano le città. Li trovi un po' da tutte le parti, da New York a Singapore, passando per Londra e appunto Milano». In quella foto degli emigranti del 1966, il Pirellone era il “monumento” del riscatto per quella famiglia venuta da lontano. «Ma il punto non è l'architettura. Non sono i grattacieli. È come si vive sotto. È la società, il cambiamento dei ruoli, dei mestieri. Quello che mi preoccupa – diceva Merisio – è la scomparsa dei contadini, degli artigiani che rappresentavano il sale di Milano. Qui si faceva di tutto. Adesso stanno sparendo».

Nella sua vita dietro l'obiettivo, Merisio ha raccontato l'Italia che cambiava, con l'«intuizione» che qualcosa stava cambiando per sempre. Non ha mai perso il contatto con la terra, la sua terra, anche quando è diventato il “fotografo di Paolo VI”. «Mi è stato utile sfogliare le riviste americane. Mi sono detto: questo avverrà anche da noi con 20 anni di ritardo: lo smantellamento dell'esistente per "convertirsi" alla modernità. Ma quale modernità? Allora c'era il dovere di raccontare. Di più, la parola giusta è "testimoniare". E questo ha fatto la mia generazione di fotografi. Abbiamo raccontato una Italia ancora "giusta", "umana", mentre i nostri governanti, tutti, senza colori politici, non capivano che piccolo era anche bello e poteva essere persino ricco. Hanno preferito imitare gli Usa e sacrificato tutto sull'altare del progresso e del cemento».

La donna con lo scialle della scalinata di Ragusa Ibla come i burattini in una corte della bergamasca, o il pellegrinaggio sul monte Autore, i lavoratori della tonnara di Favignana o nella filanda di Sotto il Monte oggi non si possono fotografare più. «Credo di aver girato tutta l'Italia a piedi», ricordava. L'Italia di oggi è un'altra Italia rispetto alle sue scene domestiche, urbane, alla campagna e alle piazze che ha raccontato per il Touring Club. «Forse è cambiata anche la piazza, e il senso della piazza. Sono cambiati i luoghi». Uno sguardo che non era di nostalgia. «No, ci mancherebbe. La nostalgia non esiste. Non mettiamoci a fare i falsi poeti. Il tempo scorre e bisogna guardare avanti. L'istante è ora. Altra cosa è la memoria e il rispetto del passato». Non c'era neanche rabbia. La parola che usava Merisio era: «dispiacere». «Il dispiacere di aver perso qualcosa».

Lo sguardo di Pepi Merisio ora si è spento. Ma grazie alle testimonianze che ci hanno lasciato i suoi occhi, possiamo guardare ancora. Possiamo ritrovare le nostre radici. Capire chi siamo. E immaginare chi vorremo essere domani. Un’eredità semplice e preziosa di cui far tesoro.

Una foto e 789 parole.

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