mercoledì 10 ottobre 2018
La gravidanza procedeva tranquilla, e sempre più evidente. Per strada le donne anziane mi sorridevano, domandavano quando arrivava il bambino. Mi piaceva, la tenerezza delle sconosciute. Quasi che quel figlio fosse anche loro, e un po' di tutti. Ma dentro di me ero inquieta. Prima di addormentarmi mi domandavo cos'avrei detto, a quel bambino, che cosa gli avrei potuto dare io, che venivo da una famiglia travagliata, che avevo solo una fede incerta, ed ero sempre rosa dall'ansia, come da un tarlo. Lo dissi a un vecchio medico che mi visitava. «Professore, ho paura. Non ho proprio nulla da insegnare, a questo bambino». Lui, un uomo apparentemente duro e di poche parole, tacque un attimo, poi mi rispose con una inconsueta dolcezza: «Non deve preoccuparsi. Sarà lui, a insegnarle ogni cosa». È stato vero. Molte di più sono state le cose che i figli, da piccoli, hanno insegnato a me, che quelle che io ho insegnato a loro. La fiducia, la gratitudine, l'allegria, le ho reimparate da loro. A tre anni una notte d'estate Pietro alzò gli occhi per la prima volta alle stelle. Zitto, stupefatto. Poi: «Ma le stelle, mamma, chi le ha fatte?». Un'evidenza per lui, che le stelle le aveva fatte qualcuno, che non si erano fabbricate da sole. Lo sguardo da creature, questo i figli mi hanno insegnato.
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