mercoledì 20 novembre 2019
Parlo di me, di nessun altro. La testa è la mia e me la cospargo da sola. Non riesco ad astenermi dal giudizio, sono triste, arrabbiata e giudico.
Penso e ripenso ogni giorno a quel bambino, Giovannino, orribilmente malato eppure in grado di intendere, sorridere, ballare: l'ittiosi non pregiudica le funzioni cognitive. Penso che a breve, se le sue condizioni saranno stabili, dovrà lasciare l'ospedale Sant'Anna perdendo i suoi riferimenti umani e spazio-temporali (la cosa mi strazia) per essere accolto in un istituto (pur straordinario) o, fosse vero, da una famiglia buona.
La speranza, forse vana, è che i suoi genitori cambino idea se è ancora possibile. Non riesco a non giudicarli, quei genitori, perciò mi metto un altro bel mucchietto di cenere in testa. Il fatto non è solo che quando ricorri a fecondazione assistita, omologa o eterologa, la legge (40, art.9) non ti consentirebbe il non-riconoscimento e l'abbandono. Non mi attacco ai codici, anche se mi piacerebbe capire meglio com'è andata la storia.
Mi chiedo solo: è giusto, è pedagogico, è morale astenersi sempre dal giudizio, adolescentizzando il mondo con un giustificazionismo senza limiti? Davvero le pure umanissime e imperfette sanzioni morali non servono a nulla? Non ci farebbe bene, un poco di severità in più, per quanto accompagnata da carità e compassione?
Sommersa dalla cenere, ma sentivo l'urgenza di dirlo.
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