giovedì 16 marzo 2023
In piazza Duomo i troppi turisti hanno sloggiato i piccioni. Autobus rossi a due piani girano carichi di stranieri entusiasti. Nelle zone della movida il sabato non si cammina, tanti sono, ai tavoli dei dehors, i giovani. Milano, dopo i cupi silenzi del Covid sembri avere ripreso alla grande. In centro senti parlare tutte le lingue, in Galleria si incolonnano giapponesi in devota ammirazione dei veri templi: Prada e Gucci. Per entrare in Duomo si fa il biglietto, a meno di affermare con insistenza che non sei un turista, e vai a pregare. Guardo stranita questa folla. Quand’ero bambina io, Milano, tu eri notoriamente “brutta”. I fumi delle caldaie a carbone annerivano i palazzi e condensavano, in inverno, una nebbia tanto fitta che non vedevi
la casa davanti. A Milano, semplicemente, si lavorava. Sui tram gli operai in tuta blu avevano ancora le mani sporche di grasso, la sera, e gli impiegati uscivano tutti alle diciotto per stringersi in tram gremiti, e spalancavano “La Notte”, cronaca nera a caratteri cubitali. Tuttavia, ricordo che i bigliettai sorridevano ai bambini. Parchi giochi non ce n’erano, in compenso le scuole scoppiavano di ragazzini, anche 35 per classe, molti del Sud. A undici anni, ora mi pare incredibile, un vigile arcigno ci multò al Parco Sempione perché giocavamo a pallavolo, ed era vietato. Severa, un po’ austroungarica eri ancora, Milano. Poi il ’68, i cortei, quei ragazzi certi di cambiare il mondo. Gli anni di piombo, dopo, le strade deserte all’ora di cena, percorse da una lama di paura. Milano, continuavi ad essere “brutta”, ma a me piacevi. Mi piaceva il profumo delle michette dai panettieri al mattino, e i carrelli dei gelatai candidi, a giugno, davanti alle scuole. Mi piaceva una certa ruvida benignità della gente. E quella bottega in Fatebenefratelli dove un meccanico vecchissimo per poche lire riparava le bici, sconto alle ragazze. Ma già si alzava la Milano da bere. Scomparivano le sarte e fiorivano gli stilisti. Via i loden verdi, e i cappotti che duravano una vita. Nulla doveva più durare una vita: dai vestiti ai mobili, ai matrimoni. Consumare, si doveva. Negli ultimi anni, in un’accelerazione il centro è stato occupato dal Lusso più esclusivo, vetrine che intimoriscono, commesse ieratiche come vestali. A Porta Nuova e City Life si sono alzate orgogliose torri. A Milano vengono a studiare ragazzi da ogni dove. Li vedi la sera all’ora dell’happy hour, nei locali. Li vedi schizzare in bicicletta e in monopattino nel traffico, e volentieri contromano (è interessante, su un 19 lungo la stretta via Meravigli, sentire cosa dicono i tramvieri milanesi, dietro ai monopattini). Chi in monopattino non può andare, né permettersi area C o parcheggi o taxi, si sente un po’ lasciato indietro. Non sei un paese per vecchi, Milano. L’audacia del tuo skyline da archistar può sembrare il futuro. Ma poi un chilometro in là vedi la coda alla mensa dei frati, e tra Farini e Stelvio, alla fermata della 90, sulla banchina affollata quasi tutti poveri migranti, in un incrocio di idiomi da Babele. Pochissimi milanesi, i capelli bianchi, l’aria dimessa. Che il futuro, invece, sia questo? A Niguarda, fra i palazzi popolari, parchi giochi senza un ragazzino. Le famiglie con bambini vanno: sei troppo cara, Milano. Non un paese per vecchi, e nemmeno per bambini. Per giovani ambiziosi, ansiosi di sfondare, o per benestanti. E ti è cambiata la faccia, Milano, come a una donna prima schiva che ora si trucchi, seducente, ammaliante: per questo vengono a vederti in tanti. Io me ne andrò: divento vecchia, e tu, almeno nei posti “giusti”, sei diventata giovane. Ma porterò con me il caro fruscio d’acciaio dei tuoi tram, la notte – quando, stanchi, tornano al deposito. © riproduzione riservata
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