Bufalino, lo scrittore nascosto dentro un baule di foto
lunedì 16 novembre 2020

Era un giorno di luglio del 1977: Gesualdo Bufalino, insegnante all’istituto magistrale di Vittoria, accettava l’invito dell’amico Gioacchino Iacono a visitare le sue terre, a pochi chilometri da Comiso, «là dove sorgeva, tuttora intatta nelle sue strutture visibili, una di quelle dimore ottocentesche ch’erano un tempo in Sicilia capitali, santuari e presidi della civiltà contadina. (…) Con l’aiuto di un’enorme chiave espugnammo il luogo, ne visitammo una dopo l’altra le stanze, non senza malinconia. Poche cose spirano malinconia quanto una casa che nessuno abita più». Girando e rigirando per la casa, sfidando i fantasmi, arrivarono in soffitta: lì li aspettava un baule pieno di lastre di collodio. Circa quattrocento. Iacono si ricordò «d’un suo nonno dal nome di battesimo gemello, un Gioacchino Iacono senior, di cui gli era nota per tradizione domestica l’abilità di fotografo; e si mostrò commosso da quel retaggio inatteso, mentre me ne porgeva dall’alto i singoli pezzi. Ma io non l’ascoltavo già più, ero corso all’aperto per osservare controluce lo stato e la qualità del bottino. Bastò la prima immagine a mettermi le pulci addosso: una sembianza di donna con viso d’azteca, sguardo duro, labbra cucite. Teneva fra le mani un ventaglio e una grossa spilla le chiudeva l’abito sotto il collo, sulla quale era possibile leggere, incisa in forti maiuscole, una parola: “Ricordo”. Probabilmente il contrassegno d’un lutto, un impegno di postuma fedeltà… Per me, istantaneo e conturbante, un emblema». Immagini straordinarie a testimoniare il tempo che fu, in quell’estremo lembo della Sicilia orientale. C’erano famiglie e contadini, il medico, l’ingegnere, l’avvocato, il sindaco, la maestra, mendicanti suonatori, bambini, scene domestiche e campagnole, tristi esequie, a comporre l’atlante dell’Homo siciliensis. Si organizzò una mostra e il professore Bufalino scrisse un pezzo su un neonato e raffinato giornale locale, Cronache di una provincia, diretto dal giovane Carlo Ottaviano. Quelle foto conquistarono tutti, anche Alberto Bombace, alto funzionario dell’assessorato ai Beni culturali, a Palermo. «Fu merito suo se le foto vennero sotto gli occhi di Enzo e di Evira Sellerio che accettarono volentieri di stamparne gli esemplari più significativi», insieme a quelle di un secondo autore, Francesco Meli, nel frattempo riemerse da un altro cassetto della memoria locale. Al professore Bufalino fu chiesto di «preporre una nota al volume». Al fotografo ragusano Giuseppe Leone che proprio in quei mesi per Sellerio lavorava al suo libro sulla cultura iblea La pietra vissuta fu chiesto di restaurare e stampare il patrimonio ritrovato. Il testo di Bufalino per Comiso ieri – Immagini di vita signorile e rurale, 1978 – poi rieditato da Sellerio (nel 1992 nel 2000) con integrazioni di testo e fotografie col titolo Il tempo in posa (da cui traiamo i suoi virgolettati) – sorprese tutti.

Quel racconto di un microcosmo era lo specchio di una visione ben più grande. «È difficile oggi per noi, che soffriamo da un giorno all’altro le accelerazioni e i su e giù della storia, immaginare quale dovesse essere la vita in un borgo alla periferia del Regno, quasi un secolo fa, al tempo dei lampioni (…). Un paese da Sicilia amara, come tanti. Col suo sempre ricominciato e deluso impegno di sopravvivere; i suoi lutti e lacrime e fami; i suoi cerimoniali di sangue e di morte. Si moriva facilmente a Comiso, allora. (…) Si moriva d’inedia e di stenti. (…) Il colera del 1854 non aveva guardato in faccia nessuno, s’era portati via, accanto ai poveri, incredibilmente, anche i signori». Poi «le stragi della spagnola». «Un paese infetto, dunque, un paese infelice. Un’economia chiusa, inerte, di poco respiro. E tanta indigenza». La prima uscita editoriale del professore Bufalino, a 58 anni, si chiudeva così: «Fra le ombre di un paese perduto, come torna alla luce il pugno di grano deposto da mani antiche nelle necropoli sicule, riaffiora questo caro regalo d’immagini, e con esse il viso del secolo, prigioniero per sempre di un rettangolo di cartone: fuori dell’elegia, dentro la storia».

In Sellerio, Leonardo Sciascia ed Enzo Siciliano s’incuriosirono alla prosa dello sconosciuto professore di provincia, sentivano che c’era di più. L’autore del Giorno della civetta che nel frattempo si era appassionato a questo angolo di Sicilia, convinse Bufalino a rompere l’omertà sui suoi decenni di scritture “segrete”, di prosa, lirica e poesia. Dal cassetto spuntò così Diceria dell’untore. Sellerio lo pubblicò nel 1981: fu subito un clamoroso successo e vinse il Campiello. Bufalino uscì dall’anonimato (nel 1988 vincerà anche lo Strega con Le menzogne della notte, Bompiani), anche se restò appartato nella sua Comiso, che non lasciava quasi mai. Bufalino viaggiava con i libri. Ed era il mondo, con i libri, che andava da lui. C’era un posto in cui però si recava con piacere per incontrare l’amico Leonardo e Vincenzo Consolo: la casa di villeggiatura di Sciascia, alla Noce, vicino Racalmuto. «Era uno straordinario luogo di conversazione – racconta Leone, autore di alcuni libri meravigliosi sul barocco e il neorealismo della Sicilia, che al sodalizio con e fra i tre grandi della letteratura siciliana ha dedicato Storia di un’amicizia (Postcart, 2015) -. È alla Noce che ho avuto modo più volte di fotografarli insieme (sotto, uno degli scatti più belli e celebri, ndr): lì si incontravano le menti pensanti, le forme artistiche, le opinioni sociali e politiche della Sicilia e credo del Paese».

Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino a Racalmuto, La Noce, 1984.

Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino a Racalmuto, La Noce, 1984. - © Giuseppe Leone

Se conosciamo Bufalino lo dobbiamo insomma a un baule pieno di foto. È la fotografia che lo restituisce in tutta la sua luce, lo tira fuori dall’ombra. Non era voluto, ma forse non è neanche un caso, che il suo ultimo libro, prima di morire fatalmente per un incidente stradale nel 1996, sia Tommaso e il fotografo cieco. Una storia grottesca sull’esistenza che chiude un cerchio. La favola di Gesualdo Bufalino. La sua luce, in un continuo gioco con il lutto. La vita, come il tempo in posa.
Un ricordo oggi, a cento anni dalla sua nascita (15 novembre 1920). Con una foto e 975 parole.

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