venerdì 21 febbraio 2020
Mentre in Italia una cultura in fatto di storia del cinema è impossibile farsela, per le nuove generazioni (anche per il disastro di un sistema scolastico che andrebbe “revisionato” da capo a fondo), con la sola eccezione della splendida attività della Cineteca di Bologna, capita altrimenti altrove, per esempio a Parigi, dove sono attive due cineteche con programmazioni quotidiane, e sono tuttora tante le cosiddette sale d'essai. Capita dunque di rivedere, in nuove edizioni e su grande schermo, i grandi titoli del passato, e tra questi ho avuto la fortuna di poter rivedere Nazarín di Luis Buñuel, uno dei film che in passato mi hanno più sconvolto e dato da pensare. È un film messicano del 1958, tratto da un romanzo di Benito Pérez Galdós del 1895 (ne conosco un'edizione italiana di Avagliano, recuperabile tramite internet), l'autore da cui il regista trasse anni dopo, stavolta tra Francia e Spagna, un altro capolavoro, Tristana. Perché Nazarín è uno dei film che più mi mise in crisi e mi dette da pensare, quando lo vidi la prima volta tanti anni fa, proprio a Parigi, dove avevo seguito per diversi anni i miei che vi erano immigrati per sopravvivere? Perché raccontava anche certe mie fantasie giovanili e le metteva in crisi. Nazarín è un giovane prete che, nella periferia di Città del Messico al tempo della dittatura porfiriana, come altri prima di lui vuole imitare il Cristo e si fa mendicante e pellegrino per le strade del Messico, raccogliendo involontariamente intorno a sé un piccolo gruppo di disastrosi fedeli, un nano, due prostitute eccetera. Nonostante la sua riluttanza in alcuni villaggi trova chi lo venera come una specie di santo, di guaritore. La sua sconfitta maggiore è quando vuole assistere una giovane moribonda, che invece della consolazione divina invoca il suo uomo e vuole ancora, fino alla fine, abbracciarlo (è un episodio che cita Sade), ma in generale il suo ostinato far del bene non porta serenità ma gelosie e opportunismi nel piccolo gruppo dei seguaci, ed è visto con ostilità dalle autorità dei villaggi finché non viene arrestato, perché in suo nome accadono liti e disgrazie. Ed è allora che, lungo la strada in cui è portato a piedi e ammanettato da una prigione a un'altra, quando una contadina che porta una cesta al mercato gli fa la carità di un frutto, che Nazarín capisce il senso vero della carità, nella solidarietà degli umili. Buñuel detestava l'uso della musica nei film, considerandolo una sorta di ricatto sui sentimenti degli spettatori, ma a questa scena unì il suono improvviso ed esplosivo dei tamburi della settimana santa del suo paese natale, Calanda, e noi capiamo dal volto di Nazarín che egli infine ha rinunciato all'orgoglio di una presunta santità per l'accettazione della lezione più vera della carità tra umili. Molti hanno ragionato su questo finale, uno dei più intensi, e sì, educativi, dell'intera storia del cinema. La sceneggiatura del film si può leggerla in Sette film di Luis Buñuel, che curai per Einaudi tanti anni fa con l'aiuto dello stesso regista.
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