giovedì 5 giugno 2003
Per l'avaro l'avere è il fondamento del suo essere, la garanzia della sua identità: "Io sono ciò che ho". Per lui la proprietà privata (dal latino privare che significa "portar via agli altri") non è finalizzata all'uso, ma al possesso" Nell'avaro lo sforzo messo in atto per esorcizzare la morte ha come effetto quello di anticiparla e diffonderla su tutto l'arco della vita. Questo è il lavoro dell'avarizia: proibire la vita, contrarla fino a renderla definitivamente non vissuta. Siamo stati compagni di studi nel liceo del Seminario, poi le nostre strade si sono separate, come si è divaricata la visione della vita, ma è rimasta sempre intensa l'amicizia. Così, il filosofo Umberto Galimberti mi invia con affetto i suoi libri e ora sto leggendo la sua interessante e vivace analisi dei Vizi capitali e nuovi vizi (Feltrinelli). All'avarizia egli, tra l'altro, dedica questa nota profondamente vera che penso sia utile per tutti, anche per chi si sente immune da questo peccato. Due sono le osservazioni del filosofo. Da un lato, l'avaro non riesce mai a godere dei suoi beni perché il suo scopo è l'accumulo, il possesso, il controllo frenetico delle sostanze, in un risparmio che raggiunge quelle forme patologiche ben illustrate dalla letteratura (chi non ricorda l'Avaro di Molière?). D'altro lato, se è vero che alla radice dell'avarizia c'è la paura della morte e, quindi, della perdita e del distacco dall'oggetto del suo amore totale, è altrettanto vero che l'avaro è come se fosse già avvolto dal sudario della morte. Basti solo pensare al protagonista della Roba di Verga che, sentendo vicina la fine, ammazza a bastonate anitre e tacchini strillando: «Roba mia, vientene con me!». Ma - confessava sconsolato il salmista - «l'uomo attaccato alla ricchezza non comprende, è come le bestie che periscono» (49, 13.21).
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