sabato 5 settembre 2020
Ci sono, purtroppo, molti modi diversi per nominare il nome di Dio invano. C'è la bestemmia, c'è l'uso strumentale che sotto tutte le latitudini ne fanno i politici, così come l'abbiamo letto sulle fibbie delle cinture sulle divise di eserciti, e perfino l'abbiamo visto usare per fare pubblicità. Ma di tutti questi modi diversi, il più tremendo, quello che davvero più di ogni altro offende, ferisce Dio, è quando il suo nome viene usato dagli uomini per giustificare l'uccisione di altri esseri umani. Ecco, uccidere con il nome di Dio sulle labbra è davvero un controsenso. Perché «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente. Chiedo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all'odio, alla violenza, all'estremismo e al fanatismo cieco». È il pensiero che Papa Francesco, in occasione della terza Giornata delle Nazioni Unite per commemorare “le vittime di atti di violenza basati sulla religione o sul credo”, ha affidato lo scorso 22 agosto a un tweet chiuso con l'hashtag #fratellanza umana, a
ricordare la Dichiarazione congiunta siglata ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar al-Tayyib nel febbraio del 2019. Nella quale, appunto, in nome della fratellanza universale si condannava l'uso deviante e deviato della fede per incitare alla guerra o sollecitare “sentimenti di odio, ostilità, estremismo”, o peggio “alla violenza o allo spargimento di sangue”, vere e proprie “sciagure”, si legge in quel testo, conseguenza della “deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell'uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell'influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portarli a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi”.
È stata, quella Dichiarazione sottoscritta un anno fa il punto di arrivo di un lungo cammino di dialogo che certo non esaurisce il problema, ma sicuramente va a mettere un punto fermo su un problema che oggi forse più che mai, specialmente sotto la pressione di un terrorismo che usa l'islam per fare proseliti, incide sulla convivenza tra gli uomini e le nazioni. Un cammino iniziato il 27 ottobre del 1986 ad Assisi, quando Giovanni Paolo II convocò nella cittadina di San Francesco i Leader di tutte le regioni del mondo per pregare per la pace. Un cammino fatto per lo più di piccoli passi, e passato attraverso tanti momenti anche molto difficili, come per esempio la crisi innescata da come due agenzie di stampa rilanciarono il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e che solo l'umiltà, la pazienza e la saggezza di Papa Ratzinger seppero trasformare in una nuova ripartenza per il dialogo con l'islam.
Una scelta profondamente radicata nella convinzione che le religioni sono per la pace e non per l'odio e la divisione, per la vita e non per la morte. E non è del resto certo un caso, e neppure un tributo alla diplomazia, se né Giovanni Paolo II, né Benedetto XVI né Francesco abbiano mai associato l'aggettivo "islamico" al sostantivo "terrorista", come molti hanno fatto e insistono a fare. Perché, pur con tutti gli errori compiuti nel corso della storia, come Francesco ci ha ripetuto qualche giorno fa «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Qualcosa che non va mai dimenticato.
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