domenica 16 ottobre 2011
Tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene. Tale è il primo paradosso e il velo inestricabile della nostra natura.

«Tu chiamavi libertà questo potere che hai di demolire il tuo tempio, di scompigliare le parole del poema della vita. Libertà di fare il deserto. E ora dove ti trovi? Chiami libertà il diritto di vagare nel vuoto?». Sono, queste, domande simili a un pugno nello stomaco che Antoine de Saint-Exupéry lascia irrompere nella sua opera postuma Cittadella, apparsa nel 1948, quattro anni dopo la morte in volo dell'autore del celebre Piccolo principe. Attorno alla parola «libertà», che è sulle labbra di tutti, in particolare di quelli che cercano di ferirla e piegarla, si consumano molti equivoci e contraddizioni. Ce lo ricorda anche una delle Considerazioni e pensieri del filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), che abbiamo voluto proporre oggi. Egli comparava Dio a «un fanciullo eterno che gioca a un gioco eterno in un giardino eterno».
La creatività libera del gioco è un simbolo per indicare un agire senza calcoli di interesse, ma col trionfo solo del gratuito, cioè dell'amore. Eppure, la libertà autentica è anche impegnativa perché è sinonimo di rigore, di carità, di creazione. L'uomo preferisce seguire l'onda, non trovarsi solo con sé stesso e con le scelte da compiere, desidera essere quietamente condotto per mano dal suo istinto o dalla guida di un altro così da accomodarsi senza pensieri e domande. È questo «il velo inestricabile della nostra natura» nel quale ci avvolgiamo e ci sentiamo protetti dal rischio che la libertà comporta. «Vincere l'intima servitù è più importante che vincere il mondo intero», si diceva nel Medio Evo.
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