giovedì 6 luglio 2006
La buona coscienza è spesso un abito da sera indossato prima di aver fatto il bagno. Carl Rogers (1902-1987) è uno psicologo statunitense noto per aver elaborato quel tipo di psicoterapia, molto diffuso negli Stati Uniti, che va sotto il nome di counseling e comporta un rapporto più dialogico e meno "direttivo" tra paziente e psicologo. Quest'ultimo deve favorire la libera emotività del "cliente" sostenendolo ma non influenzandolo o guidandolo in modo troppo dominante. È da uno dei suoi scritti dedicati allo sviluppo della personalità che estraggo questa battuta suggestiva, destinata a rinfocolare l'attenzione su un tema poco frequentato ai nostri giorni, quello della coscienza. La tradizione era convinta che essa fosse una presenza divina nella creatura umana: lo ammonisce nel momento delle scelte morali. Non si dovrebbe mai cessare dall'evocare la necessità di risvegliare questo fremito interiore che, prima, esorta e, poi, accusa. La sua è un'azione forte: non per nulla si parla di "rimorso", vocabolo che sottende l'idea di una lacerazione che sommuove la quiete opaca e inerte dell'anima. Tuttavia ci può essere anche una «buona coscienza» adattata, di stampo ipocrita. È ciò che denuncia Rogers ricorrendo all'immagine dell'abito da sera del perbenismo, indossato sopra la propria intimità spirituale tutt'altro che immacolata. Questo tipo di coscienza è quello che ben rappresentava lo scrittore francese ottocentesco Honoré de Balzac in uno dei suoi romanzi, Le illusioni perdute: «La coscienza è uno di quei bastoni che ciascuno brandisce per picchiare il suo vicino e del quale non si serve mai per se stesso». Attenzione, dunque, all'alibi dell'artificiosa «buona coscienza» o della parallela «buona fede».
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