Sempre meno studenti a scuola: la risposta è la “qualità” dell'insegnamento

La Fondazione Agnelli già nel 2018 lanciò l’allarme sulle conseguenze del declino demografico per la scuola italiana. Nel nostro Paese anche i maestri e i professori sono i più anziani d'Europa
June 14, 2025
Sempre meno studenti a scuola: la risposta è la “qualità” dell'insegnamento
IMAGOECONOMICA |
C’è un filo sottile, spesso invisibile alla politica ma tenace, che unisce l’inverno demografico con la conseguente diminuzione della popolazione scolastica e il livello di apprendimento degli studenti italiani. Questo filo si chiama “qualità” e ha molteplici declinazioni e ricadute sul nostro sistema d’istruzione. A ragionare, dati ufficiali alla mano, sulle prospettive a medio e lungo termine della costruzione del nostro capitale umano è la Fondazione Agnelli che, per prima, già nel 2018 lanciò l’allarme sulle conseguenze del declino demografico per la scuola italiana: 1 milione di studenti in meno nel decennio. Cioè, nel 2028. In pratica, domani mattina.
I dati aggiornati al periodo 2023-2038 sul declino della popolazione studentesca, con le possibili conseguenze su classi e docenti - Fondazione Agnelli
I dati aggiornati al periodo 2023-2038 sul declino della popolazione studentesca, con le possibili conseguenze su classi e docenti - Fondazione Agnelli
Questa volta, l’analisi – appositamente aggiornata per Avvenire - si è spinta un po’ più in là, al 2038. Se l’andamento della popolazione si manterrà sui livelli attuali, a quella data l’Italia avrà il 20% in meno di popolazione tra i 3 e i 24 anni, rispetto al 2022. Considerato il 2023 l’“anno zero”, la Fondazione Agnelli prevede, per la popolazione trai 3 e i 5 anni (scuola dell’infanzia), una diminuzione del 25% in 10 anni (2033) e del 35% al 2038. Tra i 14 e i 18 anni (secondaria di secondo grado), la decrescita della popolazione è stimata nel 25% e del 10% per la fascia d’età tra i 19 e i 24 anni. A soffrire, in particolare, saranno le regioni del Sud Italia, con picchi anche fino al -30% in Sardegna, Campania, Puglia e Basilicata.
In Europa, segno negativo anche per la Spagna (-13%) e la Francia (-6%). Unici Paesi in controtendenza la Svezia (+5,5%) e la Germania (+8%), che beneficiano anche del contributo dell’immigrazione.
Tornando all’Italia, la diminuzione della popolazione studentesca si tradurrà in un calo anche del numero di classi e di docenti. Elaborando dati ufficiali dell’Istat e del Ministero dell’Istruzione e del Merito, la Fondazione Agnelli quantifica in -91.026 il “taglio” delle classi entro il 2038, con le scuole superiori che ne perderanno 34.202, anche se, in percentuale, le conseguenze maggiori si registreranno alle medie con una diminuzione di classi intorno al 27,1%. Che si traduce in 142.937 docenti in meno (cioè, non più necessari), 57.801 dei quali alle superiori, 38.504 alle medie, 34.260 alla primaria e12.372 alla scuola dell’infanzia. Dati che, però, si scontrano con una realtà di segno opposto: dal 2012 – dopo una prima fase di contrazione - il numero di insegnanti è in aumento, in particolare sul sostegno, con un picco dal 2015, l’anno della Buona scuola.
Fondazione Agnelli
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È qui che entra in gioco il fattore “qualità”: come utilizzare le risorse che il declino demografico (meno classi, meno docenti) renderà disponibili? Per Fondazione Agnelli queste risorse devono restare per l’istruzione, puntando, appunto, sulla qualità dei docenti più che sulla quantità. Dove qualità è qualità della formazione didattica dei docenti, ma anche nuova organizzazione didattica del tempo scuola (ad esempio, la scuola del pomeriggio a partire dalla scuola media, che è il ciclo più debole).
Fondazione Agnelli
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Una “rivoluzione” che non si realizza, soltanto, aumentando la spesa. Da questo punto di vista, infatti, l’Italia è messa meglio di come viene spesso raccontato. Secondo Eurostat, nel 2021 il nostro Paese ha investito in istruzione l’1,2% del Pil per la scuola primaria (come la Francia e più della Germania, ferma allo 0,8%), l’1,8% per la secondaria (un punto in meno della media Ocse) e l’1,2% del Pil per l’istruzione terziaria (università), più della media Ocse (1%) e dietro soltanto alla Finlandia (1,3%). A parità di potere d’acquisto (espresso in dollari), significa che l’Italia investe circa 105mila dollari per sostenere la “vita scolastica” di ciascun alunno, dall’infanzia alle superiori. Un po’ meno della Germania (120mila dollari), ma di più di Lituania, Lettonia, Polonia, Irlanda e Giappone (tutti sotto i 100mila dollari), che, però, ottengono risultati migliori nelle rilevazioni internazionali dell’Ocse.
«Non è vero che l’Italia spende così poco in istruzione, ma investe male», sintetizza efficacemente Barbara Romano, ricercatrice della Fondazione Agnelli. La soglia oltre cui la “qualità” della spesa in istruzione è più importante della “quantità” è 85mila dollari. «Effettivamente – rilancia Romano - fino a questo livello di spesa i risultati sono direttamente proporzionali agli investimenti: al crescere della spesa crescono anche i rendimenti scolastici. Da qui in avanti la differenza è tutta nella “qualità” della spesa».
E qui cominciano i problemi, visto che l’Italia ha gli insegnanti più vecchi e meno pagati d’Europa. Se, infatti, a inizio carriera lo stipendio dei nostri prof è poco sotto la media Ue, ma vicina a quella di molti altri Paesi, con gli anni la loro retribuzione è quella che cresce meno nel tempo. Caratteristiche che rendono la professione poco attraente, soprattutto per i laureati più bravi. «Per migliorare la qualità della spesa in istruzione si deve investire nella qualità degli insegnanti, cominciando col pagarli meglio», riprende Barbara Romano. Il punto vero è, allora, «la qualità dell’insegnamento, a partire dalla formazione iniziale», ricorda la ricercatrice della Fondazione Agnelli. Che rilancia anche il tema della “carriera” dei docenti. «Con le regole attuali – ricorda Romano – le uniche progressioni di stipendio sono legate all’anzianità di servizio. Per attrarre i laureati migliori, dobbiamo cambiare le regole, introducendo una vera e propria progressione di carriera. Come avviene per tutte le altre professioni. Banalmente, ma non troppo, dobbiamo fare diventare l’insegnamento un mestiere “normale”». E se fosse proprio questo “il” problema?

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