Villapizzone, Milano: l'immigrazione e la lente di una vecchia bocciofila
domenica 17 febbraio 2019

Alle undici e mezza di una mattina piovosa, sulle vetrine di un bar a Villapizzone, periferia nord di Milano, un cartello: 'Oggi trippa'. La scritta tracciata a matita ha un gusto così d’altri tempi che spingi la porta, ed entri. È una rara, remota bocciofila con giardino, sopravvissuta in un quartiere ormai a maggioranza cinese. C’è un biliardo, con le sue stecche allineate al muro, e il banco di zinco al quale due avventori bevono senza fretta un bianchino. Il barista, molto anziano, ti guarda con un certo stupore, in quel rifugio di antichi clienti abituali.

In un angolo, seduti a un tavolo, un crocchio di pensionati gioca a briscola. In quattro hanno le carte, lise dall’uso, nelle mani, gli altri osservano, intenti. Hanno, tutti, i capelli bianchi. Commentano la partita a voce alta, e gli accenti si incrociano. Due sono milanesi, gli altri del meridione: sono i bambini che negli anni 50 e 60 del Novecento vennero su dal Sud con treni che arrivavano stracarichi alla Centrale, sono i ragazzi che sotto al Pirelli appena terminato trascinavano a fatica grosse valigie di cartone legate con lo spago. Sono quelli che qui, in questa periferia della Milano profonda, i vecchi abitanti chiamavano terroni, e consideravano invasori.

E ora, nella bocciofila rimasta tra le botteghe cinesi, calano gli assi, vincono, perdono, si mandano, da amici, a quel paese. (Gli uomini, pensi, con gli anni si amalgamano; come emergesse, sotto alle differenze, qualcosa di profondo e comune).

Continui a guardarti attorno. 'Non fumare', è ripetuto su ben cinque cartelli alle pareti, a caratteri grossi, come se la clientela su quel punto ancora non ci sentisse bene: nei posti come questo, una volta si navigava nella nebbia di fumo delle Nazionali 'senza'.

Il giardino in febbraio è spoglio, il gioco delle bocce vuoto. Ti immagini estati bollenti, e nel silenzio del cortile lo schiocco delle bocce, e le esclamazioni dei giocatori; mentre attorno viveva una Milano di tute blu, fabbriche, case popolari, e la sera dalle finestre le madri chiamavano i ragazzini che giocavano a pallone nei cortili.

Tutto è cambiato, questo pezzo di città è irriconoscibile. I capannoni dismessi sono diventati loft per inquilini sofisticati; le ultime ciminiere vengono ricoperte dall’edera, come se la natura si riprendesse, adagio, un territorio abbandonato. Nelle case, gli italiani sono quasi tutti vecchi. Famiglie cinesi e arabe si sono stabilite qui, con i loro bambini. Tanti. E così raro, invece, vedere una mamma italiana che spinge un passeggino.

Nella bocciofila ormai è ora di pranzo, un odore sapido di trippa si allarga nel locale. Il gruppo di pensionati continua a giocare. Sono belli assieme, sembrano un quadro, l’istantanea di una Milano che scompare. Sarebbe facile, lasciarsi andare alla nostalgia.

Ma, rifletti rimettendoti in cammino per le strade piene di tintorie, sartorie, spacci cinesi, cosa sarebbe di questi grandi caseggiati, se quegli stranieri che tanta parte dell’Italia teme non fossero venuti qui? Cosa sarebbe, con il nostro crollo demografico, questa cintura periferica di Milano e di altre nostre città? Cerchi di immaginarlo, e allora scorgi, netto, il vuoto: il nostro vuoto, i figli che non abbiamo avuto. Nell’ultima bocciofila, enclave di ex operai incanutiti, vedi incarnarsi le proiezioni Istat che annunciano che fra trent’anni oltre un terzo degli italiani avrà più di 65 anni, e gli ultraottuagenari saranno quattro milioni.

È così che qui attorno, nei piccoli appartamenti popolari, quando l’anziano inquilino muore subentra una famiglia cinese, araba, indiana, con i suoi bambini. Chi ci governa dovrebbe decidersi a smettere di usare tutto questo e a capirlo nel profondo: anche le città, come la natura, aborrono il vuoto. La vita, se non si riproduce, poi torna – da lontano. Dalla bocciofila dei vecchi di Villapizzone, quasi attraverso una lente d’ingrandimento, questo scorrere della storia è così chiaro.

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