venerdì 20 giugno 2014
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La sofferenza del popolo siriano è divenuta insopportabile. Troppi veti incrociati, inattendibili complicazioni politiche, impotenze e rinvii: è ora di dire basta e provare a fare qualcosa. La triste gara dell’ipocrisia della comunità internazionale è fin troppo evidente. Politicamente la crisi di Siria è un rompicapo ma questo non è una giustificazione sufficiente a rassegnarsi. La storia e l’esperienza insegnano: non ci sono crisi facili, così come non ci sono conflitti irrisolvibili. La verità è un’altra: in Occidente, in Russia e negli altri Paesi mediorientali coinvolti, si pensa di poter prendere tempo sulla Siria, che si tratti cioè di una crisi minore, di un conflitto tollerabile perché ormai “a bassa intensità”. Se ci fosse sentore di immediato pericolo per gli interessi nazionali di uno dei protagonisti a vario titolo coinvolti, si utilizzerebbe ben altra attenzione. Ma di Siria – almeno finché non contagi direttamente altre aree – per ora si può fare a meno. Tra tutti gli errori commessi, questo è il più tragico.
Gli altri errori sono ormai innegabili: non si è voluto prendere sul serio la voce dell’opposizione non violenta quando si era in tempo; si è scelto di sostenere la ribellione del Cns che si è rivelato fin da subito un partner debole e diviso; si è perso tempo in gesticolazioni guerresche piuttosto vuote; non si è voluto negoziare realmente con Mosca né con l’Iran. Ora constatiamo le conseguenze di tali errori. Come ogni conflitto di questo tipo, la Siria “genera mostri” che già stiamo vedendo e che ci ritroveremo ad affrontare in seguito. La guerra intestina tra fazioni ribelli sempre più estreme è un cattivo segnale che esaspera la crisi interna dell’islam politico e crea soggetti ogni volta peggiori. Lasciare spazio a tali degenerazioni significa alimentare odio in giovani generazioni islamiche traviate da una religione manipolata all’estremo e deluse dalle aspettative della “primavera araba”. Lo abbiamo già visto con l’Afghanistan, la guerra Iran-Iraq e le guerre del Golfo, l’Algeria, oggi in Mali del nord: ogni conflitto lasciato a se stesso (o addirittura mantenuto in vita) ne genera uno successivo. Ogni focolaio è pericoloso e va spento al più presto. Se grazie all’intervento del Papa si è evitato di compiere l’errore più grave (scatenare una guerra e aggiungere violenza a violenza) ciò non significa che non occorra una forte volontà politica per far cessare gli scontri.
Ma l’errore peggiore è pensare di poter vivere senza Siria. La Siria è un messaggio e tutto ci lega alla Siria. La Siria è terra delle più antiche civiltà; lì è stato coltivato per la prima volta il grano, sono nate le prime lingue e scritture. La Siria è stata una provincia di Roma per sette secoli e vi si trovano ancora strade romane com’erano veramente: rialzate come un nastro che scorre nella campagna. In Siria resiste un mosaico antico di religioni e culture minoritarie che non esistono più altrove. Dovremmo interrogarci, ad esempio, sull’esistenza dei cristiani di Siria, eredi di un’antichissima tradizione che rischia di scomparire per sempre, dopo essere stata quasi spazzata via dall’Iraq. Non dimentichiamo che sono ancora prigionieri nella zona di Aleppo due vescovi e vari preti. Più recentemente la Siria rappresenta, nel bene o nel male, una delle poche terre dove ha resistito la coabitazione tra religioni e culture mediterranee diverse. La Siria è una culla della civiltà: oggi non è più banale ripeterlo. Lasciarla affondare è recidere le nostre radici. L’Italia ha una sua storia con la Siria, non si tratta di un Paese a noi estraneo. Se già possiamo andare orgogliosi del fatto che il Libano contiguo non sia stato travolto dalla guerra siriana grazie anche alla presenza dei nostri soldati, non è impossibile immaginare di spingere l’Europa a prendere in comune un’iniziativa. È necessario far ripartire il dialogo, magari iniziando dagli attori fin qui esclusi, e poi mettere in campo un’autorevole operazione di pace sul terreno che protegga la popolazione civile e crei condizioni politica nuove. D’altronde la guerra è in tragico e sostanziale stallo e a morire oggi sono soprattutto i civili. Ciò è intollerabile ed è ora di dire basta.
      *Sottosegretario agli Esteri
 
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