Vera sicurezza è la clemenza
venerdì 23 dicembre 2022

C’è da stancarsi, a scrivere di quel microuniverso dolente che è il carcere, delle sue endemiche emergenze, delle sue storie di varia umanità, delle incredibili perle di solidarietà che possono nascondere spesse mura e pesanti cancelli. Da anni, infatti, sembra che la situazione possa soltanto peggiorare. Ma non abbiamo il diritto di stancarci, se c’è chi dietro quelle sbarre muore ogni giorno, di suicidio, di malattie che “fuori” non sarebbero state contratte o forse non sarebbero state letali, di droga (che entra nei modi più disparati e con le complicità più diverse), di solitudine, d’indifferenza.

Non è pietismo, qui ne va della dignità umana e del rispetto dello stato di diritto, quale l’Italia dovrebbe essere. Anzi, se vogliamo è pure questione di convenienza, perché oggi chi sconta la pena interamente in cella – senza l’opportunità di poter imparare un vero mestiere, senza contatti che possano agevolarne il reinserimento in società una volta uscito – ha un tasso di recidiva altissimo: secondo il rapporto di Antigone, al 31 dicembre 2021 solo il 38% dei detenuti era alla prima carcerazione; il restante 62% era già stato “dentro” almeno una volta; il 18% era alla quinta esperienza di detenzione o più. Al contrario, con le misure alternative al carcere il tasso di recidiva si abbatte. L’ennesima dimostrazione di come – anche questo sulle nostre pagine l’abbiamo scritto fin quasi a stancarci – più carcere non voglia affatto dire più legalità, né più sicurezza.

Mercoledì scorso a Rebibbia si è tolto la vita l’ottantaduesimo detenuto dall’inizio del 2022: aveva 30 anni, ne scontava meno di due per rapina, sarebbe uscito a luglio. Non ce l’ha fatta a resistere altri sette mesi, forse spaventato anche da un “dopo” privo di prospettive che fossero diverse da altre rapine, altri arresti, altro carcere. Ottantadue suicidi in un anno, ai quali vanno aggiunti quelli di cinque agenti penitenziari: è un tremendo record nella storia dell’Italia repubblicana. Un record che non dà onore né gloria. Altro che stancarsi, più che mai è necessario far sentire la voce di chi dietro le sbarre sopravvive e di chi vi lavora; è necessario ascoltare i cappellani, figure di riferimento dei reclusi non solo per il conforto spirituale, ma anche per piccoli aiuti concreti come qualcosa di decente da mangiare, per una pacca sulla spalla o un sorriso quando servono. E servono sempre.Certo, il sovraffollamento, la carenza degli organici della Polizia penitenziaria, la mancanza di educatori, mediatori culturali e psicologi sono tutti problemi terribilmente gravi, ma s’illudono quelli che pensano di realizzare un sistema di esecuzione penale funzionante (che non sia cioè criminogeno come quello attuale, ma produttore di legalità e di rigenerazione umana) soltanto costruendo nuove prigioni e assumendo altro personale. Si tratta di misure che possono servire a migliorare la situazione, indubbiamente. Ma ciò che serve, innanzi tutto, è una poderosa iniezione di speranza. E non soltanto qui in Italia. Perciò, in vista del Natale, papa Francesco ha scritto a tutti i governanti, Italia compresa, «per invitarli a compiere un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura, perché questo tempo segnato da tensioni, ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore». Il Pontefice parla al mondo e parla ai cuori, non fa il giurista né il legislatore. E la clemenza può essere espressa in vari modi, a cominciare da un’esecuzione della pena rispettosa della dignità propria di ogni essere umano.

Ma per restare in Italia, perché scartare a priori l’ipotesi di un provvedimento d’indulto e/o amnistia, mirato e limitato a determinati reati, tale appunto da dare a queste persone una speranza e un’opportunità di ricostruirsi una vita? In nome di quale pretesa e sbandierata “certezza della pena”, se manca la certezza del diritto? Ogni ex detenuto recuperato è una vittoria per lo Stato. Ogni suicida, ogni recidivo, è molto peggio di una sconfitta: è una vergogna.

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