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La Passione di Cristo, com’è narrata nel quarto Vangelo, evidenzia i segni di regalità del Messia crocifisso: Gesù è il Figlio venuto nella carne, che si consegna alla morte in obbedienza al Padre per amore nostro e dal trono della Croce, cinto di una corona di spine, consegna lo Spirito per rendere chiunque crederà in lui partecipe della vita divina, costruttore di pace. Questo dono passa attraverso la sofferenza del Figlio abbandonato per noi. Il Vangelo secondo Marco, come quello secondo Matteo, riportano a loro volta il grido di Gesù morente: «Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46). Si tratta di una citazione del Salmo 22, culminante in un atto di fiducia: al Dio sovrano il Crocifisso chiede “perché?”: la domanda è carica del tormento che attraversa la sofferenza, il travaglio di non comprenderne il senso, e nasce dall’esperienza di un reale abbandono, dall’assenza e dal silenzio di Colui, del quale il Nazareno più avrebbe desiderato la vicinanza nell’ora della Croce.
È la domanda che tanti si stanno ponendo nell’Ucraina devastata dalle micidiali armi di Putin, come nella Russia stessa, che conta i suoi tanti giovani caduti in battaglia, in Israele colpito dalla barbarie di Hamas, come fra i Palestinesi di Gaza, ridotta a macerie e terra di morti: dov’è Dio in tanta distruzione e dolore? La narrazione evangelica adombra una risposta: all’abbandono da parte del Padre il Figlio risponde con l’offerta di sé. Cristo è l’abbandonato, ma non è il disperato!
Egli si rivolge al Padre con un “perché?” (in greco “eis tì”), che diventa il grido “nelle Tue mani” (in greco “eis keirás-sou”: espressioni in cui la preposizione è la stessa, indicativa da un lato di una domanda sul senso, dall’altra di una consegna totale e fiduciosa); l’esperienza dell’abbandono da parte del Padre diventa abbandono che il Figlio fa di sé stesso a Lui: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Consegnando lo Spirito (cf. Gv 19,30), il Crocefisso entra nella solidarietà con tutti i sofferenti, in particolare con quanti per loro colpa hanno sperimentato l’esilio dalla patria dell’amore e della pace. In quell’ora – l’ora “nona” di tutta la storia – la vicenda delle sofferenze umane è rivelata come quella del Dio con noi: Egli vi è presente a soffrire con l’uomo, a contagiargli il valore della sofferenza offerta per amore, vittoriosa sulla morte come fu la Sua. È il Dio che dà valore al dolore del mondo perché l’ha assunto e redento: e questo senso è l’amore, che sa chiedere e offrire perdono.
Con l’obbedienza della fede ogni discepolo del Salvatore può sperimentare la prossimità dell’amore divino alla sua quotidianità, provata sotto il peso della sofferenza, e nella preghiera adorante può imparare a far compagnia al dolore di Dio, facendosi carico col Figlio del peccato del mondo, invocando con Lui, nostra pace, il dono della pace per tutti. Il credente fa memoria della passione del Salvatore e della Sua vittoria sulla morte per attualizzarne il mistero nella propria vita, partecipando così alla redenzione della famiglia umana in unione col Cristo, che ha sofferto ed è stato glorificato per noi. Credenti si dichiarano molti dei protagonisti delle guerre in corso: dal Patriarca di Mosca, sostenitore dell’invasione voluta da Putin, a molti dei responsabili della difesa ucraina, dai fedeli in ascolto del Dio d’Israele a quelli che invocano la guerra santa in nome dell’Islam. A tutti andrebbe chiesto di mettersi al cospetto dell’Altissimo e di misurare sulla Sua volontà le proprie scelte: quanti troverebbero conferma ad esse? quanti sarebbero disposti a cambiarle?
Di fronte alle sconcertanti prese di posizione di tanti leader globali, alle minacce e alle pretese di altri, le parole di una preghiera attribuita a Fr. Charles de Foucauld sembrano le più vicine all’invocazione che ognuno dovrebbe far sua: Padre mio, io mi abbandono a Te. Fa’ di me ciò che Ti piace. Qualunque cosa Tu faccia di me, Ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la Tua volontà si compia in me e in tutte le Tue creature: non desidero nient’altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle Tue mani, Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché Ti amo ed è per me un’esigenza d’amore il donarmi e rimettermi nelle Tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché Tu sei il Padre mio. Diventa allora ineludibile la domanda: quanti di noi, e in particolare quanti fra i popoli in guerra, vorranno far propria questa rinuncia ai propri calcoli in nome della pace, secondo un orizzonte più grande di ogni misura troppo corta e solo autoreferenziale? Il Venerdì Santo si offre, allora, come una sfida e una promessa per tutti...
Arcivescovo di Chieti-Vasto