.jpg?width=1024)
Venerdì Santo, il dolore del mondo - Agenzia Romano Siciliani
Ho sempre pensato che la Settimana Santa fosse tempo di raccoglimento, di silenzio, di preghiera, di ascolto; quasi di messa tra parentesi della vita. Al cuore del Triduo, il venerdì è il giorno della contemplazione del Signore che fa offerta della sua vita, fino in fondo, fino all’ultima goccia di sangue. È lo spazio del silenzio che parla al cuore.
Ma quest’anno è difficile assumere questo sguardo interiore che vorrebbe solo contemplare; o, forse, ci è chiesto di comprendere la contemplazione in un altro modo: non solo quello delle celebrazioni ordinate e compunte, ma quello che contempla Cristo che muore nel mondo. Oggi ci è chiesto il coraggio di restare immersi nel buio che a mezzogiorno avvolge la terra; ci è chiesto di guardare da lontano, come le donne, una situazione che fa sentire impotenti, tentati dal pensiero che tutto sia finito, che non ci sia futuro possibile e sperabile, non tanto per la Chiesa e il cristianesimo, ma per l’umano.
Il Signore muore attorniato da una folla vociante e volgare; strattonato e ferito da mani rozze e prepotenti. Ci verrebbe da chiederci: ma dove sono quelli che le sue mani hanno restituito alla vita, con il loro tocco delicato; quelli che Lui ha ascoltato in silenzio, cui ha restituito dignità di parola e insegnato la bellezza della parola mite e compassionevole? Domande inutili! Non si può sfuggire alla realtà: non può farlo Lui, inchiodato mani e piedi alla Croce; non possiamo nemmeno noi sfuggire al nostro Venerdì Santo.
Oggi è il Venerdì Santo del mondo! Il giorno in cui il trionfo del Male sembra definitivo.
Vengono in mente i bambini di Gaza e quelli dell’Ucraina; le donne del Sudan e di chissà quali altre parti del mondo mai salite agli onori della cronaca; vengono in mente le vittime di quella violenza quasi primitiva che riempie strade e piazze delle nostre città. Immagini che ci passano sotto gli occhi ogni giorno e davanti alle quali non riusciamo più a indignarci; e anche questo ci fa paura.
Non è che la forza del male, nelle sue diverse forme, non ci colpisca più, ma è che ci sentiamo impotenti. O scegliamo di essere impotenti per non lasciarci provocare. E smarriti, quando ci rendiamo conto che la violenza delle parole e la prepotenza dei propositi hanno preso ovunque legittimità e – come fa notare in un bell’editoriale Giuliano Zanchi sull’ultimo numero de La rivista del Clero Italiano – sembrano diventati motivo di vanto, nella platealità di un protagonismo della forza che, a cascata, si diffonde a ogni livello.
Il nostro sguardo, fisso sul volto dell’Uomo della Croce, non può non riempirsi di tanti volti, ugualmente deturpati, ad aumentare il nostro senso di impotenza, che è quello stesso delle donne del Calvario. La nostra contemplazione del Crocifisso impara da loro che, semplicemente, stanno; che possono mai fare? Continuano a guardare, quasi a volersi stampare negli occhi l’immagine del loro Signore. Ma non se ne vanno. Scelgono di lasciarsi abitare da quel dolore. Il loro non è eroismo, è amore.
Noi siamo privilegiati rispetto alle donne del Calvario; noi sappiamo che quella morte è solo una parentesi dopo la quale si riaprirà la vita. Ma per loro, il loro Signore è morto. Il silenzio della morte avvolge i loro cuori. Con Lui entrano nel silenzio, nel giorno in cui, come si legge in un’antica omelia, «il Re dorme».
Anche noi, con loro, entriamo nello stesso silenzio. È un silenzio pieno di domande, ma dentro di noi opera la memoria di ciò che è già accaduto e la fiducia che accadrà ancora: che quel silenzio tra poco risuonerà del canto dell’alleluia, a confermarci che il dolore, il declino, la violenza, la morte non sono l’ultima parola.
E lo crediamo facendo forza alle nostre domande, e lo invochiamo per tutti i crocifissi del mondo.