venerdì 6 maggio 2016
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Caro direttore, il presidente Jens Weidmann ha confermato la settimana scorsa a Roma, in modo chiaro e senza mezzi termini, le analisi e le posizioni della Bundesbank.  Altrettanto chiaramente va però detto che le sue analisi e le sue posizioni sono palesemente smentite dalla teoria economica e dalla evidenza dei dati degli ultimi ottant’anni. Alla luce del dibattito avviato su questo giornale dal già governatore Antonio Fazio e in occasione della visita a Roma del cancelliere tedesco Angela Merkel, è utile allora puntualizzare di nuovo alcuni aspetti. Dice Weidmann: i deficit eccessivi e i debiti crescenti di alcuni Paesi europei sono la fonte primaria della crisi europea ed inquinano tutta l’area dell’euro. “No”, quindi, alla monetizzazione del debito attraverso acquisti diretti della Bce di titoli di Stato e “sì” alla imposizione di vincoli patrimoniali al sistema bancario in base alle quote di titoli di Stato posseduti. In realtà, Weidmann confonde le cause con gli effetti. Infatti, è vero esattamente il contrario: la crisi reale europea (crescita zero, deflazione, dirompente disoccupazione) è la fonte primaria dei deficit pubblici e dei debiti accumulati in questi anni. La causa di questa crisi sono gli errori europei di politica monetaria e di politica di bilancio. Gli effetti di quegli errori sono le conseguenti condizioni di fragilità dei conti pubblici. Dal 2003 e fino al 2011 (poi la Provvidenza, prima ancora dei governi Ue, ha mandato Draghi a Francoforte), la politica monetaria della Bce, con Trichet eterodiretto dalla Bundesbank, ha seguito pedissequamente la cosiddetta “teoria quantitativa della moneta”. La convinzione cioè che la quantità di moneta consente di controllare l’inflazione senza alcun effetto negativo sul tasso di crescita reale, determinato soltanto da elementi strutturali, con il libero mercato che garantisce sempre la piena occupazione. La “teoria economica” degli ultimi ottant’anni ha radicalmente smentito quella vetusta tautologia. La storia ci dice che non fu l’iperinflazione della Repubblica di Weimar che portò Hitler al potere con libere elezioni, quanto piuttosto le successive drastiche restrizioni della quantità di moneta che portarono la Germania alla deflazione, alla crescita negativa e a una dirompente disoccupazione. Oggi, il nuovo mondo della globalizzazione dimostra che l’inflazione non dipende dalla quantità di moneta, ma dai bassissimi costi del lavoro della Cina e dell’intera Asia. La controprova è sotto i nostri occhi: malgrado il quantitative easing di Draghi, l’inflazione nell’area euro non si schioda di molto dallo 0,5%, cioè dalla deflazione. Sull’altare di quella mitologia, il presidente della Bce Trichet aumentò i tassi di interesse in Europa (per paura di un’inflazione che non c’era) quando la Fed americana li diminuiva drasticamente. E così ci siamo trovati con il super-euro schizzato in alto fino a sfiorare 1,60 sul dollaro, con pari apprezzamento sul Renmimbi regalando alla Cina il 50% di competitività in aggiunta a tutti i suoi dumping sociali ed ambientali. Il super-euro, tra il 2003 ed il 2014, ha causato, nell’Eurozona, una perdita di Pil di circa l’11% e oltre 17 milioni di disoccupati in più. In parallelo c’è il “peccato originario” di Maastricht, cioè l’aver posto come obiettivo il controllo del deficit pubblico al 3% e il suo successivo azzeramento «senza distinguere tra spesa pubblica corrente ed investimenti».  Questo ha spinto tutti i governi a perseguire l’equilibrio dei conti pubblici non contenendo la spesa corrente, bensì aumentando le tasse e tagliando gli investimenti. Così facendo hanno tutti ridotto il potenziale di crescita. Al contrario si sarebbe dovuto indicare che il 3% di deficit doveva essere destinato soltanto agli investimenti, magari aggiungendo una regola di grande rigore: ogni 1% di avanzo corrente si può fare un 2% di investimenti in più, introducendo nel bilancio pubblico una solida regola di leverage al 50%: come una famiglia che acquista una casa e paga il 50% in contanti e fa un mutuo per il restante 50%. Se Maastricht fosse stato interpretato in questo modo, l’area euro, sempre tra il 2003 e il 2014, avrebbe avuto un 5% circa di Pil in più e 7 milioni di disoccupati in meno. La somma di questi due “errori” ha comportato la perdita di circa il 16% di Pil e 25 milioni di disoccupati in più. Questa è la causa della crisi europea. Senza quegli errori, l’area euro non avrebbe avuto una crescente e dirompente disoccupazione e, soprattutto, avrebbe avuto condizioni di finanza pubblica ben più solide e credibili, con un deficit pubblico “sano” e un debito pubblico decrescente sul Pil e ben inferiore in valore assoluto rispetto a oggi. È vero che nonostante quegli errori europei la Germania ha comunque avuto una buona performance in termini di crescita e di finanza pubblica. È altrettanto vero, però, che la Germania ha così rinunciato a far vivere ancor meglio i tedeschi accumulando enormi avanzi di partite correnti che da anni dovrebbero essere sanzionati secondo il 'Six Pact'. Ma non è che qualche falco tedesco si pone ormai l’obiettivo di far saltare l’euro, facendo così saltare l’intera costruzione europea con conseguenze gravi anche per la stessa Germania? Speriamo che la signora cancelliere Merkel si ricordi di essere allieva di Helmut Kohl che, al momento della riunificazione tedesca, disse: «Debbo portare la Germania in Europa per evitare la germanizzazione dell’Europa».  *Presidente del centro studi “Economia reale”
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