lunedì 3 marzo 2014
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Lo scomparso Hugo Chavez, padre della revanche neobolivarista che lo portò a vistosi successi elettorali e a un consenso fondato sulla distribuzione a pioggia di sussidi e missiones da elargire a quelle che un tempo si sarebbero chiamate “classi subalterne”, aveva un padre spirituale – Fidel Castro – e almeno due figli putativi, il boliviano Juan Evo Morales Ayma e il conterraneo Nicolás Maduro. Segue nella graduatoria del pantheon degli etnocaudilli l’ecuadoregno Rafael Vicente Correa Delgado, autoproclamatosi «umanista e cristiano di sinistra e fautore di un socialismo del XXI secolo». Un groviglio di utopie e buone intenzioni che hanno sortito risultati disomogenei in quel gigantesco laboratorio sociale e politico che è l’America Latina. Che oggi ribolle di rivolte, di malcontento, di fallimenti politici e di successi economici. Come quello di Morales, divenuto la personale ossessione di Maduro, per il quale non è il complotto yanqui a turbarlo (la palpabilissima interferenza americana nella rivolta di piazza che infiamma il Venezuela in questi giorni e che Maduro ogni giorno addita come la causa dei disordini), quanto il miracolo boliviano che vede il Paese crescere a livelli cinesi, la disoccupazione quasi dimezzata, il reddito pro capite quasi raddoppiato e l’economia tirare impetuosa grazie agli idrocarburi, all’agricoltura e l’allevamento e, a breve, grazie alla gestione oculata di materie rare come il litio, la quinoa, l’uranio.Tutt’altra musica in Venezuela, dove la vita umana vale meno di un pugno di bolivar svalutati e dove può capitare che l’ex campione di boxe Antonio Cermeno venga rapito insieme alla sua famiglia in piena Caracas e il suo corpo ritrovato poco dopo senza vita lungo un’autostrada senza che qualcuno si meravigli: ogni giorno, mediamente, in Venezuela vengono uccise in modo violento 65 persone. Maduro, il baffo triste di un epigono dal destino che sembra segnato dalla nascita, non ha né il carisma di Chavez né le risorse che “el Indio” sfruttava con calcolata passione. Nemmeno il petrolio, risorsa principe del Paese, basta a capovolgere la deriva finanziaria, il ristagno dell’economia, la corsa dei prezzi: un litro di acqua costa più di un litro di benzina, nei Pdval e nei Mercal, i supermercati del popolo inventati da Chavez scarseggiano i beni di prima necessità e l’inflazione ondeggia – stime certe non si possono fare – fra il 41 e il 56 per cento. Ma se il Venezuela piange, l’Ecuador non ride. Le elezioni municipali hanno punito il partito di Correa e anche qui il modello sociale su cui si fonda l’Alba (l’Alleanza bolivariana per le Americhe) mostra la corda. L’errore che accomuna gli etnocaudilli è sempre lo stesso: emarginare quella borghesia imprenditoriale ritenuta – non sempre a torto – connivente con i peggiori dittatori del passato, ricorrendo all’intimidazione, alle leggi speciali, al bavaglio sulla stampa (l’espulsione degli inviati della Cnn come ha fatto Maduro è da mettere sullo stesso piano della chiusura delle sedi di Al Jazeera nel teatro mediorientale), senza rendersi conto che è proprio quella chiusura pregiudiziale a fare di Paesi ricchi di materie prime e di risorse naturali dei Paesi poveri che si reggono sull’elemosina pubblica. Nessuna meraviglia se poi attori come Sean Penn, personaggi famosi come Madonna, solitamente solidali e generosi con i nipoti adottivi di Fidel Castro ora volgano la testa dall’altra parte, per non vedere e per non dover dire. E meno male che una voce scomoda come quella del premio Nobel Mario Vargas Llosa continua a non tacere. Ma quegli altri, troppi silenzi sono molto eloquenti, quasi quanto lo strepito che si leva dalle piazze. Un messaggio che manda in soffitta gran parte delle sulfuree utopie del continente, condannandolo a un bagno di realismo forse non più magico, ma certo più opportuno.
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