venerdì 5 agosto 2016
Utero in affitto, un commercio senza dignità
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Con una sentenza surreale la Corte di Appello di Milano ha mostrato nei giorni scorsi ancora una volta – casomai ce ne fosse ancora bisogno – come l’«utero in affitto» sia, sempre e comunque, una delle forme più odiose del moderno commercio di esseri umani. Secondo le giudici – tre donne, il che rende ancora più pesante e sconvolgente il loro giudizio – la maternità surrogata è lesiva della dignità della donna, ma potrebbe non esserlo qualora fosse consentito di accedervi «in un contesto regolamentato in termini non riducibili alla logica di uno scambio mercantile», per esempio, garantendo «sempre e comunque» un «ripensamento», cioè «la possibilità di tenere con sé e riconoscere il bambino». Cioè se si eliminasse ogni aspetto commerciale e la donna potesse ripensarci quando vuole e tenere suo figlio, allora l’«utero in affitto» sarebbe accettabile.Prendiamo per buona l’ipotesi e vediamo di capire in che modo potrebbero realizzarsi le condizioni per una maternità surrogata 'dignitosa'. Innanzitutto, le giudici dovrebbero sapere che quella che loro hanno ipotizzato è la filosofia di fondo della legge vigente in Gran Bretagna, primo Paese ad aver legalizzato la pratica della maternità surrogata nel 1985. Teoricamente non è previsto pagamento, e la madre surrogata può ripensarci e tenere il bambino. In un Paese dove i diritti individuali sono consolidati, infatti, non è immaginabile mandare la polizia a sottrarre un neonato a sua madre, se non lo vuole dare a chi lo ha promesso: è tutto il sistema giuridico a non poterlo consentire.  Ma è una filosofia applicabile solo in parte. È infatti evidente che il ripensamento della partoriente non può essere «sempre e comunque»: ci vorrà pure un termine entro il quale si stabilisce, irreversibilmente, chi è la madre del piccolo. In Gran Bretagna ci sono sei mesi di tempo, e questo è uno dei motivi per cui gli inglesi vanno all’estero per la maternità conto terzi: non c’è certezza di avere poi il bambino, una volta nato. Il «diritto al ripensamento sempre e comunque» semplicemente non può essere previsto da nessuna legge al mondo nel regolare una pratica che è strutturalmente commerciale e non può ammettere una 'spada di Damocle' di questo tipo sul contratto finalizzato alla 'produzione' di un bambino.Ma non basta: per escludere l’aspetto 'mercantile' è necessario innanzitutto eliminare qualsiasi scambio di denaro. Non solo pagamenti diretti ed espliciti, ma anche i cosiddetti 'rimborsi': come ci mostra l’evidenza di quello che accade nei Paesi laddove l’«utero in affitto» è legale, non esistono donne disposte a restare incinta, portare avanti la gravidanza, partorire e cedere il neonato a terzi, in modo completamente gratuito. E i 'rimborsi' non si limitano mai alla restituzione di cifre pagate a piè di lista, come da ricevuta fiscale: quale donna è disposta a fare da 'portatrice' accontentandosi della restituzione delle spese per le analisi cliniche e il cambio del vestiario, opportunamente documentate dal commercialista? Sono sempre previste somme che in qualche modo cercano di quantificare in denaro l’impegno sostenuto per restare incinta, i nove mesi di gestazione e il parto. E cosa è questa equivalenza fra 'lavoro' (gestazionale, potremmo definirlo in questo caso) e soldi, se non la base del commercio? Ma non basta ancora, perché l’aspetto mercantile non si limita solo al denaro: non esistono madri surrogate senza stipula di un contratto che le obblighi a comportamenti ben precisi. Nessuna coppia committente lascerà libera la madre surrogata di fumare, per esempio, di assumere droghe o alcol, anche in forma limitata «a scopo ricreativo», o anche farmaci e terapie a proprio personale giudizio, o di avere comportamenti rischiosi secondo gli aspiranti genitori, come ad esempio avere rapporti sessuali non protetti durante la gravidanza, o vivere in condizioni precarie dal punto di vista dell’igiene personale o della dieta. E difficilmente i committenti lasceranno che la madre surrogata se ne stia senza dare sue notizie per nove mesi.Se il bambino nella pancia della donna è figlio di altri, e la gestante è solo una 'portatrice', per forza di cose saranno questi 'altri' a dettare le regole per il bene del 'proprio' figlio che sta crescendo nel grembo altrui. E proprio perché la madre surrogata compie un 'lavoro' con modalità e costi dettagliatamente stabiliti, va previsto un risarcimento nei suoi confronti in caso di danno dalla gravidanza o dal parto. Insomma: la regolamentazione dell’utero in affitto deve servire, per definizione, a dare garanzie sufficientemente elevate agli aspiranti genitori nell’avere poi il figlio, alla fine del percorso, e per far questo è necessario uno strumento legale ben definito che tenga conto di spese, impegni e comportamenti, obblighi e doveri reciproci, fra tutte le parti in causa. Non può esserci maternità surrogata senza un contratto efficace, che si possa far valere davanti alla legge, per stabilire con certezza chi sono i genitori, di chi lo sono, e a quali condizioni. Un contratto che deve valere anche in quei rarissimi casi in cui a far da madre surrogata siano una madre, una figlia, una sorella: forse pensiamo che una parentela stretta fra committenti e madre surrogata giustifichi un accordo per via orale? Un percorso di gratuità completa? Una totale libertà nei comportamenti della donna ridotta a 'portatrice'? È pensabile una legge per cui se c’è parentela stretta fra costei e i committenti vale la 'promessa' di un figlio 'sulla parola'? Non si tratta piuttosto di cavalli di Troia con cui alcuni sedicenti liberal-libertari vorrebbero legalizzare il commercio di esseri umani.
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