martedì 21 marzo 2017
Utero in affitto, l’emancipazione che diventa schiavitù. Come per altri casi dibattuti in passato c’è chi parla di alienazione e chi di autodeterminazione
Parigi. Una manifestazione contro la prarica della maternità surrogata

Parigi. Una manifestazione contro la prarica della maternità surrogata

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Per le femministe non è un buon momento, nonostante il femminismo sia ormai dappertutto. Sfilate di moda, profumi, dichiarazioni d’intenti: il termine è usato senza risparmio, ma che cosa significhi non è ben chiaro. Tra le prime a notarlo è stata Andi Zeisler, anticonformista intellettuale statunitense che dalla fine degli anni Novanta si occupa del rapporto tra condizione femminile e cultura popolare. Il suo ultimo saggio si intitola We Were Feminists Once (“Una volta eravamo femministe”, Public Affairs, 2016) e indaga la discutibile evoluzione del movimento in senso commerciale. Fino a non molto tempo fa, commenta perplessa l’autrice, l’idea di femminismo era connotata da un pregiudizio di grigiore ideologico, poi un giorno è arrivata la popstar Beyoncé e l’appellativo feminist si è trasformato da desueto grido di battaglia in seducente slogan pubblicitario. Non per tutti, però. E non per tutte.

«Se le femministe non vogliono che un uomo decida sui loro corpi, io pretendo che nessuna donna decida sul mio», riassume con durezza Victoria, una delle madri surrogate intervistate da Serena Marchi per Mio tuo suo loro (Fandango), un libro la cui uscita coincide con quella di un pamphlet di tutt’altro segno, Nel ventre di un’altra di Laura Corradi (Castelvecchi). In entrambi i casi, non si tratta di un’opera prima. Nel 2015 Serena Marchi aveva raccolto in Madri, comunque una serie di testimonianze che già contemplavano l’ipotesi delle «donne che partoriscono per altri», diventata esclusiva in questo secondo reportage. Oltre trentamila chilometri (33.613, per l’esattezza) percorsi in lungo e in largo, dagli Stati Uniti all’Ucraina, dal Canada alla stessa Italia, per incontrare donne diverse per età e condizione sociale, accomunate dall’assoluto entusiasmo per l’esperienza o l’eventualità della gravidanza vicaria. Nessun dubbio in partenza, nonostante l’introduzione giuridica affidata a Elena Falletti provi a sottolineare la complessità del dibattito. E nessun tentennamento strada facendo, visto che tutte le interessate insistono sulla categoria del dono, garantiscono di intrattenere ottimi rapporti con le famiglie di destinazione e, per l’appunto, se la prendono con le femministe. «Chi sono loro per decidere per me? Perché si sentono così superiori da sapere cos’è giusto e cosa non lo è?», polemizza l’italiana Maria, piccola imprenditrice del Veneto che in effetti alla surrogazione non si è ancora prestata, ma sarebbe disposta a farlo anche perché, ammette con apprezzabile sincerità, «è un momento difficile per me, economicamente parlando».

La questione del compenso non è elusa in Mio tuo suo loro (le schede sulla legislazione dei vari Paesi visitati hanno il merito della franchezza), ma quello che sta più a cuore a Serena Marchi e alle sue interlocutrici è l’aspetto culturale o, se si preferisce, emotivo. A farne le spese sono proprio le femministe, con il loro complesso di superiorità e la loro «visione triste e limitata», come la definisce la canadese Julia. Le più perentorie sono le statunitensi: Holly che non permette neppure al marito di intromettersi, Jennifer che si sente guidata da una forza divina, Cecilia la messicana e la già ricordata Victoria, venticinquenne con una mancata carriera nell’esercito, per la quale «nessuno può decidere cosa devo fare col mio corpo». Un punto di vista molto occidentale, questo sull’autodeterminazione a oltranza, peraltro coerente con l’impostazione complessiva dell’inchiesta, che dedica solo qualche cenno alla situazione di un Paese come l’India, dove la gravidanza per altri è un’attività svolta da donne in condizioni economiche precarie e a contare, di conseguenza, è la sussistenza familiare più dell’affermazione personale.

Ancora più reticente Mio tuo suo loro si rivela sui rischi legati alla salute della gestante e del nascituro (in appendice, a ogni buon conto, lo psichiatra Ettore Straticò se la prende con i «presunti traumi» relativi ai bambini cresciuti da coppie omosessuali). La questione, al contrario, è affrontata in tutta la sua gravità da Laura Corradi, il cui curriculum coincide con quello delle tanto bistrattate femministe «tristi e limitate». E che Nel ventre di un’altra sia «una critica femminista delle tecnologie riproduttive» è annunciato senza ambiguità fin dalla copertina di questo contributo che viene ad aggiungersi agli ormai numerosi interventi della stessa Corradi, in gran parte reperibili nel sito bodypolitics.noblogs.org. Si tratta di una posizione classica, che vede nella maternità surrogata il compimento del processo di mercificazione e alienazione descritto già da Karl Marx nel Capitale. «Come l’operaio viene alienato dal proprio prodotto finale – annota Laura Corradi –, essa [la madre surrogante ridotta a mera capacità riproduttiva, ndr ] viene alienata dal frutto del suo lavoro, non ha alcun diritto sul soggetto che mette al mondo, ma solo sul denaro che le è stato promesso: il suo salario come operaia della riproduzione».

Il ragionamento di Nel ventre di un’altra si colloca tutto in questa prospettiva, con una considerazione interessante. A più riprese, infatti, l’autrice lamenta l’occasione mancata del 2005, quando il referendum sulla procreazione assistita «fu erroneamente presentato dal fronte laico come una battaglia fra donne progressiste a favore della scienza, della libertà e dei “diritti di riproduzione” contro bigotte cattoliche oscurantiste, ostili all’innovazione scientifica». Nello specifico, «il desiderio di combattere l’intrusione del Vaticano» (semplificazione un po’ sbrigativa per riferirsi al ruolo svolto all’epoca dalla Chiesa italiana) viene considerato dall’autrice come il primo e forse principale motivo della sconfitta referendaria, maturata in un contesto già caratterizzato da «un’interpretazione erronea dell’idea di libertà, che non teneva in considerazione la posizione contraria delle femministe di colore e la loro critica ai privilegi economici e sociali delle donne bianche». Fin qui, si potrebbe dire, ci muoviamo nel territorio dell’ideologia, discutibile per definizione. E tutta da discutere, in effetti, sarebbe la denuncia dell’errore di valutazione per cui troppo a lungo le cautele sul cosiddetto “utero in affitto” sono state considerate alla stregua di un anacronistico scrupolo religioso.

Nel ventre di un’altra, però, non è un testo di mera teoria. Anche Laura Corradi ha viaggiato molto per raccogliere i dati che ora fornisce al lettore. Si è spinta fino in India, tra l’altro, e ha esaminato una letteratura scientifica tanto vasta quanto poco valorizzata, i cui risultati rilevano le patologie derivanti dalle tecniche adoperate per la surrogazione. Ne soffrono anzitutto le madri (iperstimolazione ovarica, in primo luogo), per la quale il procedimento si riduce all’accettazione, solitamente niente affatto informata, di «rischi medici senza alcun beneficio medico». Ma a rappresentare il vero «non detto della questione» è l’incidenza, in parte già documentata, di patologie ai danni dei nascituri: «di fronte al rischio di avere un bambino con malattie genetiche o malformazioni – annota Laura Corradi –, il business della procreazione si ridurrebbe drasticamente». Il contrasto che i due libri portano alla luce non riguarda soltanto l’Italia e non è, nella sua struttura, del tutto inedito nel femminismo recente. Il precedente più istruttivo è costituito dal dibattito su pornografia e prostituzione, che per la corrente più tradizionale rappresentano, di nuovo, gli esiti di un’alienazione sconfinante nella schiavitù e che un’altra parte del movimento interpreta invece come occasioni di emancipazione e autodeterminazione. In questione c’è sempre il corpo, del quale viene messa in discussione non la sovranità ma la disponibilità: assoluta per le paladine dello scambio anche economico, limitata per le pensatrici più legate all’impostazione classica.

Una riflessione su questo discrimine è tanto più urgente nel momento in cui il corpo torna a imporsi come soggetto politico. È la tesi sostenuta da una delle più note e controverse rappresentanti degli studi sul gender , Judith Butler, nel recente L’alleanza dei corpi (nottetempo): elemento ricorrente nelle vicende internazionali degli ultimi anni, l’aggregarsi fisico delle persone in luoghi convenuti – Occupy Wall Street, piazza Tahrir al Cairo, Gezi Park a Istanbul eccetera – restituisce cittadinanza all’idea, altrimenti negletta, di popolo. In questo modo si afferma, se non altro, un principio di realtà indiscutibile nella sua concretezza. Ed è sulla base di questo stesso principio che la questione della maternità surrogata andrebbe affrontata: il giudizio, per quanto sgradevole possa risultare, non viene dalle femministe, ma dalla realtà.

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