mercoledì 1 febbraio 2012
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Come esce l’Italia dal vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea che si è chiuso ieri a Bruxelles e che ha visto il varo del nuovo Patto di bilancio? E come ne escono l’Europa dell’euro piagata dai colpi della speculazione e l’Unione stessa a 27, vincolata da una disciplina di bilancio – dalla quale si sottraggono per ora la sola Gran Bretagna e la Repubblica Ceca – che prevede il pareggio dei conti pubblici quale "regola d’oro" inserita nelle singole Costituzioni?Cominciamo dall’Unione. L’Europa a Ventisette è, per antica definizione, un ornitorinco, animale dalla bizzarra morfologia (il becco d’anatra, la natura di mammifero che tuttavia depone uova) la cui evoluzione è ancora in corso. Guardare un pezzo d’Europa trascurandone un altro non rende giustizia alla visione d’assieme. Nel carattere europeo si fronteggiano da sempre – e spesso ciò diventa abusato luogo comune – il rigorismo nordico e il lassismo mediterraneo, il negoziato e il mercimonio più bieco delle grandi maratone per la spartizione dei fondi con il formalismo più rigido nella stesura dei meccanismi fiscali.Questo vertice, come quelli che l’hanno preceduto, rispecchia le anime differenti dell’Europa ricomponendole in uno dei tanti compromessi che accontentano e al tempo stesso scontentano le opinioni pubbliche nazionali. Con il «fiscal compact» l’Unione Europea si è finalmente data delle regole. Regole stringenti, certo, non sempre facili da osservare, ma che sono l’unico presupposto (in questo la Bce di Mario Draghi e la cancelliera Merkel sono assolutamente d’accordo) perché dopo il rigore ci si avvii verso la crescita.Insieme alle regole di bilancio e alla corsa irrevocabile verso il pareggio ci sarà anche un fondo salva-Stati permanente, la cui entità (500 o 750 miliardi di euro) è ancora oggetto di discussione, ma che fornisce una garanzia robusta nei confronti degli assalti della speculazione. L’Italia avrà un compito non facile: dovrà rientrare ogni anno di un ventesimo dell’eccedenza oltre il 60% del debito pubblico, formula intricata e da adottare a partire nel 2013, con un anno di tempo cioè per ammorbidire grazie alla crescita (se ci sarà) e al contenimento della spesa l’onere di un rientro per noi molto gravoso. Ma non potevamo aspettarci di meno, anzi, si temeva dovessimo patire di più: olandesi e tedeschi erano pronti a introdurre sanzioni ben più pesanti.Inevitabile in casi simili domandarsi chi siano i vincitori e chi gli sconfitti. L’Italia a nostro giudizio ne esce più che bene: contiene le misure più aspre e mette sul piatto il debito privato (fra i più bassi al mondo) e la riforma delle pensioni che rende il nostro sistema fra i più sostenibili in assoluto. La forte credibilità personale del presidente del Consiglio Monti è essa stessa una moneta spendibile in frangenti come questo: non per niente la sua lunga esperienza come mediatore ha dato frutti tangibili, in primis quello di convincere Sarkozy e la Merkel a includere i Paesi che non appartengono all’eurozona (come la Polonia) nelle decisioni sulle politiche di bilancio. Meno smaglianti del previsto invece i risultati portati a casa dalla Germania. La Merkel non ha ottenuto tutto ciò che voleva e in compenso si è fatta bacchettare non solo dai Paesi «virtuosi» come l’Austria e il Lussemburgo per la sferzante proposta di commissariare la Grecia, ma financo dal presidente dell’Europarlamento, il germanissimo Schulz, con il risultato di riaccendere passioni nazionalistiche e revanscismi che l’Europa delle patrie dovrebbe aver cancellato, pur serbandone memoria.Un tempo, giova ricordarlo, certe controversie a cavallo fra protezionismo e dazi l’Europa dei principati e delle monarchie le risolveva – con capziosi alibi politici e ideologici – a colpi di cannone. Oggi fortunatamente non accade più. Il che non significa che le guerre delle valute, delle materie prime e quella sui debiti sovrani che stiamo vivendo siano meno cruente e meno onerose in termini finanziari. Proprio per questo l’Europa deve saper crescere in modo nuovo. Nel rigore, nella disciplina, ma deve imparare a reinvenatare saggiamente la crescita. Altra strada, di fronte a una disoccupazione che tocca i 23 milioni di individui, non c’è. E il negoziato rimane l’unica medicina possibile.
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