venerdì 12 giugno 2015
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La prima e più forte emozione che suscita la notizia della morte di una donna in ospedale durante un trattamento di fecondazione assistita, è il dolore. Più grande, il dolore, perché si somma a quello che deve averlo preceduto negli anni di attesa del figlio desiderato e cercato, possiamo ben immaginare, dentro una condizione di infertilità che ha in sé il lamento e l’invocazione. Evoca in noi, questa immaginata ricostruzione dei prodromi, il pianto di Sara, la preghiera di Elisabetta. A rimontare la disabilità ci può essere un percorso 'terapeutico', cioè la riabilitazione di una facoltà generativa assopita o ferita, o anche i misurati artifici che assecondano o facilitano l’esito sperato di quel rapporto intimo e personalissimo dell’uomo e della donna nel loro abbraccio d’amore aperto alla vita. Ma ci può essere anche l’artificio sostitutivo, che si dissocia e relega quel rapporto fuori di scena, e cerca i materiali della vita e li assembla come ingredienti d’un prodotto programmato con gesti di accurata tecnologia. Il primo problema della provetta sta qui. Non è un problema, ante omnia, sanitario. È un problema umano. L’esito infausto di un trattamento di procreazione medicalmente assistita è, dal lato clinico, cioè dentro l’orizzonte della tecnica medico-chirurgica, un evento avverso. Non si può condensarne il senso dicendo che 'la provetta uccide'; in ospedale si muore per tante possibili cause, talvolta per malasanità, talvolta per una malaugurata complicanza fatale. Ma è un problema umano, questo sì, un problema etico che rinforza il suo interpello quando l’exitus da un tunnel di dolore e di desiderio negato è la morte, e si tocca il colmo della sventura. Non possiamo, in altre parole, neppure limitarci all’ordinaria rassegnazione per qualcosa 'che è andato storto' dentro la diritta via della scienza che fabbrica la vita; né concentrare gli sforzi del futuro soltanto a parare gli imprevisti, a scansar gli ostacoli, a prevenire gli incidenti di percorso sull’autostrada della fecondazione artificiale, senza rivedere 'umanamente' quella strada stessa che diritta non è, e ha le sue tortuosità, le sue contraddizioni, le sue ambiguità. Questi pensieri ci accompagnano da decenni, da decenni stanno dentro il cuore inquieto del mondo, e non dipendono certo dalla morte della giovane donna di Conversano dopo l’agoaspirazione ovarica. Ma è pur sempre l’impatto con la morte che fa rimbalzare all’indietro i pensieri e decifra il senso dei propositi umani di fronte alla coscienza del limite. È la morte che incornicia pur sempre, e fatalmente, la dimensione umana della vita. Dell’una e dell’altra diviene vano parlare se le mutiamo in simboli dei nostri artifici che se ne fanno 'padroni': della nostra potenza, anzi dei nostri deliri di onnipotenza. È in ragione delle disinvolture che hanno marcato anche di ingiustizie e di follie l’avventurosa avanzata nei territori umani della vita prodotta (vedi l’eterologa, vedi le crudezze degli uteri affittati, vedi i neonati in braccio ad omocoppie) che i pensieri e le emozioni cercano a volte di ritornare alle radici del 'chi è' il figlio. Allora, la tragedia che ci sorprende e ci percuote, insieme col pianto ci chiede pensiero e sguardo sull’intero e più vasto orizzonte che non l’episodio di cronaca. Ci forza a distinguere ciò che è casuale, e forse può confondersi nella scura casistica ospedaliera degli esiti infausti inattesi, da ciò che invece appare divenuto sistemico e che non fa notizia e che non viene detto e che neppure è reputato un evento avverso perché non conta: la morte dei figli della provetta 'non riusciti', o congelati, o scartati. È in questa direzione che la provetta uccide. Perciò, infine, dolore e dolore, e compianto sull’enigma della donna morta; e coscienza angosciata per i molti figli e figli perduti, enigma anch’esso per la civiltà del mondo. Gli enigmi sono più, la morte una. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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