sabato 24 gennaio 2009
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La cornice di Palazzo Chigi è sempre suggestiva e carica di storia, ma l’unico errore dell’intesa raggiunta giovedì sera sul sistema contrattuale è proprio il luogo scelto per la sigla. Perché questo, a differenza di altri in passato, non è un accordo voluto dal governo, che non ha fatto né da arbitro né tantomeno da motore dell’incontro tra le parti. La sede più propria sarebbe stata il Cnel, giacché per usare una dizione particolarmente cara alla sinistra, questa riforma dei contratti è un vero «Patto tra produttori». Costruito pazientemente con decine e decine di faccia a faccia – nelle sedi sindacali – tra confederazioni e associazioni imprenditoriali. Una tessitura per la quale l’esecutivo ha svolto un ruolo del tutto marginale, limitandosi a concedere sgravi fiscali sui contratti integrativi. E, quale datore di lavoro nel Pubblico impiego, recependo un quadro di regole e meccanismi messi a punto nell’ambito della trattativa per i dipendenti privati. Anche per questo risulta difficilmente comprensibile l’arroccamento della Cgil sul «no». I contenuti dell’intesa, infatti, sono innovativi e potenzialmente assai positivi per i lavoratori. Mentre, sul piano strategico, firmare il patto tra produttori avrebbe permesso alla stessa confederazione di restare protagonista nelle relazioni industriali e nell’economia del Paese, aggirando il confronto ideologico con il governo, evidentemente percepito come 'nemico'. Fortunatamente passeranno diversi mesi – oltrepassando anche la scadenza delle elezioni europee – prima che si debbano avviare le trattative per uno dei grandi contratti di categoria, al quale applicare le nuove regole. La tentazione per la Cgil di costruire nelle piazze e nelle fabbriche il blocco dell’opposizione è evidentemente forte: non a caso le federazioni dei metalmeccanici e degli statali hanno già proclamato uno sciopero congiunto. Ci sono, però, tempi e spazi anche per un ripensamento e, speriamo, un’adesione successiva all’intesa, così da evitare spaccature dannose tra i lavoratori. Nel frattempo, c’è da sperare che il Pd non compia lo stesso errore di Epifani, isolandosi da quel tessuto produttivo e sociale del Paese che giovedì sera ha iniziato a rimboccarsi le maniche. Sindacati e imprese che hanno scelto di non limitarsi a chiedere «più risorse» (pure necessarie per ammortizzatori e settori in crisi) ma di mettersi subito in gioco, scommettendo su un reciproco affidamento, cambiando regole sclerotizzate e inefficaci, per rispondere in maniera attiva alla crisi con un impegno comune di operai e impiegati, di grandi gruppi e officine artigiane. Davvero qui si dimostra che il 'coraggio del cambiamento' non sta solo negli slogan del presidente Obama. Sul piano economico, alleggerire il contratto nazionale dando maggior spazio alla contrattazione aziendale (o territoriale) permetterà di correlare meglio le retribuzioni alla produttività e ai risultati economici della singola impresa (o distretto). Favorendo così insieme lo sviluppo delle aziende e la crescita dei salari, anche grazie agli sgravi fiscali. E pure laddove i margini di produttività e di guadagno sono ridotti, questa più stretta correlazione migliorerà gli aggiustamenti fra domanda e offerta di lavoro, favorendo l’occupazione regolare nelle aree deboli. Il valore più profondo dell’intesa, però, è che l’enfasi sulla contrattazione aziendale – per arrivare a produrre il massimo dei benefici a lavoratori e imprese – presuppone la dismissione dell’antagonismo e della conflittualità fine a se stessa, la condivisione delle finalità d’impresa e un più ampio coinvolgimento di dipendenti e sindacati nella vita e nelle decisioni dell’azienda. Nuove relazioni industriali in un clima finalmente partecipativo, in grado di esaltare il valore del lavoro e del fare impresa, rappresentano i primi passi verso una maggiore democrazia economica. Solo un antico riflesso ideologico può consigliare di restarne fuori.
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