martedì 4 dicembre 2018
Lo sguardo sul presente del sociologo che per mezzo secolo ha provato a decifrare e raccontare l’Italia
Il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis (Ansa)

Il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis (Ansa)

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Prima dei saluti, guardo ancora una volta tra gli scaffali: l’edizione dell’Encyclopédie in anastatica, i Sonetti del Belli nel loro cofanetto nuovo fiammante, tanti classici, molte immagini sacre. «Il Talmud dove lo tiene?», domando. «A casa», risponde sollecito Giuseppe De Rita, ma dal tono si intuisce che è solo l’inizio della risposta. «Però guardi che il Talmud non è un libro – aggiunge infatti –. È un processo continuo, è il lavoro e la sfida dell’interpretazione». Non casualmente, fra gli autori citati con maggior frequenza da De Rita c’è Emmanuel Lévinas, il pensatore per il quale il commento sapienziale della Scrittura ebraica è insieme metodo e programma. Da oltre mezzo secolo, del resto, questo fa De Rita: interpreta l’Italia, che molti si ostinano a considerare irriducibile a ogni interpretazione.

«L’idea di un rapporto sulla situazione del Paese era venuta agli americani, che però avevano rinunciato – ricorda il sociologo durante il nostro incontro nel suo studio romano del Censis –. All’inizio degli anni Sessanta, quando con Gino Martinoli e Pietro Longo fondammo il Centro studi investimenti sociali, ci sembrò che si potesse riprendere quello spunto, adattandolo alla realtà italiana. “Lei deve avere un ego smisurato”, mi disse qualche tempo dopo uno degli esperti statunitensi che avevano deciso di abbandonare il progetto. Può darsi che avesse ragione, non discuto. Resta il fatto che l’Italia è un Paese meno indecifrabile di quanto si creda. Forse perché, a dispetto dei ricorrenti appelli alla discontinuità, è caratterizzato da un’insospettabile continuità di fondo».

Dal 1967 (data del primo storico Rapporto Censis, nel quale già si celebrava l’«addio alla società semplice») fino al 2016 è sempre stato De Rita a stilare le Considerazioni generali poste in apertura del documento. Una volta ceduto il passo all’attuale segretario generale, il figlio Giorgio, il presidente del Censis ha voluto raccogliere quei testi in un corposo volume edito da Mondadori. Il titolo, Dappertutto e rasoterra, è anche una sintesi della tensione fra auspicata discontinuità e continuità effettiva che, secondo De Rita, permette di comprendere meglio quanto sta accadendo in questi mesi. «Dallo scorso anno non sono più io a firmare le Considerazioni generali – ribadisce –, ma l’esigenza di interpretare rimane. Mi viene da dire che mai come oggi l’Italia ha bisogno del Talmud non meno che del Vangelo: di una logica che sia mobile e duttile, ma non compiacente». La discontinuità, per cominciare. «Si tratta di uno dei grandi temi della retorica nazionale e, in quanto tale, nasconde più di un’insidia – osserva De Rita, che nel luglio scorso ha compiuto 86 anni –. Il cambiamento viene invocato a più riprese, secondo un ritmo che dall’8 settembre del 1943 ha una base di venticinque anni. Ci faccia caso: un quarto di secolo è la distanza che separa l’Armistizio dal Sessantotto ed è anche quella che corre tra il deflagrare della contestazione giovanile e la tempesta di Tangentopoli, nel ’93. Altri venticinque anni ed eccoci alle elezioni del 4 marzo 2018, al contratto di Governo, al Governo del cambiamento. Il problema è che, di volta in volta, l’entusiasmo è passeggero e la palingenesi viene puntualmente rimandata. Ma questo non vuol dire che il Paese sia impermeabile alle trasformazioni. Mi torna in mente il dibattito tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi sul finire degli anni Settanta. Allora era il segretario del Pci a battersi per un “Governo del cambiamento”, mentre il suo collega socialista era persuaso che il cambiamento andasse governato, sì, ma che in sostanza fosse già in atto. Uno chiedeva, l’altro vedeva, entrambi appartenevano alle élite che, lungo tutto il Novecento, si sono fatte carico di dare forma a istanze che altrimenti sarebbero rimaste pulviscolari. Gli italiani, si è detto, sono il popolo della sabbia, un insieme di individualità che faticano a esprimersi in forma comunitaria. Esattamente a questo è servita, nei decenni passati, quella classe dirigente di cui oggi pare si siano perse le tracce».

Secondo De Rita, non è dal rischio di una involuzione autoritaria che occorre difendersi: «Se guardiamo al passato – suggerisce – il desiderio del cambiamento a ogni costo ha sempre trovato una valvola di sfogo, che per molti aspetti rientra appunto nella formula del “dappertutto e rasoterra”. Nell’immediato dopoguerra, per esempio, la ricostruzione è passata per una serie di iniziative molecolari. Allora era il singolo padre di famiglia ad accordarsi con il geometra di fiducia per rimettere in sesto la casa, in una dinamica non diversa da quella che, passando per il “sommerso” degli anni Settanta, ha fatto sorgere la trama di piccole imprese locali dalla quale è poi nato il made in Italy e nella quale, in definitiva, si è spenta la violenza innescata dalle frange estreme della contestazione. Ed è ancora alla figura del piccolo imprenditore che fece appello Silvio Berlusconi sul crinale del ’93, offrendo un’ulteriore valvola di sfogo alla rabbia che covava nel Paese. Venendo al presente, bisogna ammettere che ancora non capiamo come la discontinuità possa rientrare nell’alveo della continuità. Per la prima volta nella storia della Repubblica, chi raccoglie voti sul territorio non riesce a interpretare la complessità che il territorio stesso esprime. Anche l’azione di governo procede per segmenti, nel tentativo di accontentare chi vuole o non vuole la Tav o il Tap, chi si aspetta il reddito di cittadinanza, chi pretende provvedimenti ancora più restrittivi in termini di sicurezza. Le riforme si adeguano a questo criterio frammentato, senza mai trasmettere un autentico sentimento di futuro».

Abile coniatore di metafore, De Rita mostra di apprezzare l’immagine del “Paese sospeso” con il quale il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, si è di recente riferito alla situazione italiana. «In un certo senso, mi pare che sia sempre stato così – dice –. Di certo, fino al marzo scorso, abbiamo assistito a una crescita del rancore che, a mio giudizio, sta almeno in parte defluendo. Tutto sta a capire che cosa possa venire dopo il rancore: un effettivo ritorno alla normalità oppure un’esplosione della rabbia, magari innescata da una crisi del sistema bancario, come temono alcuni? Il mio timore, a questo punto, è che manchino le personalità autorevoli, disposte ad assumersi le responsabilità che la complessità dei tempi comporta. Ora come ora, il solo riferimento sicuro è rappresentato dal presidente Mattarella, che non per niente appartiene a una tradizione di classe dirigente ben preparata e capace, appunto, di farsi carico della crisi».

Non è questione di casta o non casta, avverte De Rita: «Davanti al rischio di deriva occorre una élite capace di fare la propria parte. Ma per formare una élite di questo tipo occorre, una volta di più, un’idea generale della società, che al momento non mi pare di vedere all’orizzonte. Motivo per cui torno sulla mia convinzione del “dappertutto e rasoterra”: continuità e discontinuità si misurano sulla base di processi diffusi, non sul trasformismo delle sovrastrutture di potere, che per garantire la propria sopravvivenza si concentrano sul presente. Sa qual è stato, in questo mezzo secolo, il peggior nemico della società italiana? La cronaca, intesa come successione di fatti scollegati l’uno dal-l’altro, buoni tutt’al più per sorreggere il commento del politico di turno. Ma la cronaca, di per sé, non spiega nulla, non è una conferma né una smentita».

Tra pochi giorni, il 7 dicembre, il Censis presenterà il 52mo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Giuseppe De Rita non vuole anticiparne i contenuti, ma alla fine lascia trapelare un indizio: «Mi ha colpito, nelle Considerazioni redatte mio figlio Giorgio, una citazione tratta da Gianni Rodari. Era uno degli autori prediletti da mia moglie Maria Luisa, morta nel 2014. In un frangente come quello in cui ci troviamo, questo ricorso alle parole della madre mi ha fatto molto riflettere. Ma non mi ha stupito troppo, lo confesso: anche per me quella donna, mia moglie, è stata il vero Talmud».

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