venerdì 13 gennaio 2017
I generali americani sono preoccupati per la strategia aggressiva dei russi: più navi e armi in sei teatri, nel Pacifico la partita chiave
La portaerei «Kuznetsov» è lunga 307 metri, ha un equipaggio di 1.980 persone e un’autonomia di 45 giorni

La portaerei «Kuznetsov» è lunga 307 metri, ha un equipaggio di 1.980 persone e un’autonomia di 45 giorni

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Sembra sempre più isolato Donald Trump nei suoi aneliti di 'accomodamento' con la Russia. Anche Rex Tillerson, segretario agli Esteri in pectore, fa un passo indietro. Sentito dalla commissione esteri del Senato, ha spiazzato tutti l’altro giorno: «La Russia è un pericolo […] e i nostri alleati della Nato hanno ragione da vendere a temerla». Un monito ribadito ieri da James Mattis, futuro numero uno del Pentagono. Che Mosca abbini tattiche convenzionali nuovamente dirompenti a un savoir faire raffinato nella strategia indiretta è ormai un dato di fatto. Lo testimoniano le campagne d’ingerenza cibernetica al di là dell’Atlantico, frutto di una dottrina operativa ibrida che si alimenta di colpi di mano imprevedibili e repentini. Obama l’ha capito e ha subito reagito, con le sanzioni antirusse e la 'guerriglia diplomatica' di fine dicembre. Non pago, il senatore repubblicano McCain sta promuovendo un disegno di legge per inasprire l’embargo. Ha con lui molti repubblicani e quasi tutti i democratici. Un fuoco di fila che renderà irto di ostacoli il cammino speranzoso di Trump verso un modus vivendi con Mosca.

Il presidente ha contro anche buona parte dell’establishment militare, a partire da Joseph Dunford che, salvo imprevisti, sarà capo dello Stato maggiore interforze ancora per un po’. La Crimea e l’Ucraina hanno avuto un impatto talmente dirompente sul generale che un mese fa, al Reagan National Defense Forum, ha stigmatizzato senza remore Mosca, imputandole «di voler intaccare la credibilità della Nato e di tramare per ostacolare la proiezione americana nel mondo». Dunford pensa alle nuove capacità d’interdizione russe lungo l’arco d’acciaio che si protende minaccioso dal Baltico al Mediterraneo orientale. Una cosa che turba i sonni dell’ammiraglio John Richardson, capo delle operazioni navali: «La US Navy sta constatando una crescita esponenziale delle attività della marina russa, soprattutto nell’Atlantico settentrionale e nel Pacifico», foriera di ripetuti incidenti fra aerei e navi 'nemici'.

Fino al 28 ottobre scorso, l’ammiraglio Foggo sedeva a Napoli, al comando della VI flotta. Nel suo lungo mandato si è speso per l’unità dell’alleanza atlantica e per misure di contro-assicurazione agli alleati del mar Nero e del Baltico. Ha lasciato uno scritto a tinte scure, in una delle ultime uscite della rivista Proceedings. Parla «di quarta battaglia dell’Atlantico», pur ricordando la necessità di riprendere i contatti con gli ufficiali russi, prima che sia troppo tardi. Non avviene da tempo e non bisogna perderne altro. Perché la Russia sta risorgendo, anche sui mari. Ecco perché un modus vivendi con Mosca sarebbe profittevole a tutti. Soldi permettendo (il bilancio della Difesa è stimato al 3,52% del Pil, sopra i 40 miliardi di dollari, in calo rispetto agli anni scorsi), la Russia ha piani molto ambiziosi, dettati da un disegno di lungo periodo. Con 38.000 km di frontiere marittime e abbondanza di fiumi navigabili, il compito è immane. Per ora, i russi hanno una sorta di flotta-fortezza, in grado di blindare gli accessi marittimi del Paese e di effettuare missioni limitate in certe aree dell’oceano globale, con i sottomarini, e con la portaerei (deludente) in Siria.

Ma i documenti strategici del 2015 e del 2016 allargano gli orizzonti temporali e gli obiettivi, descrivendo le tappe di un programma navale articolato in tre fasi: la prima nel 2020, la seconda nel 2030 e la terza nel 2050, quando la Marina dovrebbe disporre di due portaerei e di diverse piattaforme d’altura, per mostrare bandiera e potenza lontano dalle frontiere di casa. In almeno sei teatri prioritari, dallo scacchiere artico e atlantico, al Pacifico, all’Oceano Indiano, al trio mar Caspio-Nero-Mediterraneo e all’Antartico. La geopolitica settentrionale è in subbuglio. A fine dicembre 2014, la flotta russa del Nord ha creato un comando strategico anche per l’Artico. Il quartier generale è nel mare di Laptev, puntellato da basi aeree poco distanti. Che fervano manovre militari emerge dall’intensità dei voli aerei e delle spedizioni di materiali. Il 1° comando aereo manda continuamente in pattuglia i bombardieri strategici, scortati dai caccia militari. A pochi chilometri dal confine norvegese e finlandese, la città di Sputnik è un poligono tout court di fucilieri di marina, truppe avioportate e sabotatori.

In Norvegia stanno correndo ai ripari. Anche perché intorno al 2020, il governo russo vorrebbe aver ultimato i preparativi per una nuova brigata di berretti verdi, specializzati nel combattimento ai poli. La base sorgerà a dieci km appena dalla frontiera norvegese. Un mix di assetti e basi cruciali per rafforzare il dispositivo di sicurezza nell’Artico russo e garantire le rotte delle navi cargo. Perché Mosca rivendica la quasi totalità dei fondali artici e delle loro immense ricchezze. Siamo in aree di contatto fra interessi divergenti. Ogni mossa azzardata può accendere le polveri. Qui come nel Baltico, altro scacchiere ad altissima tensione. A Baltijsk, nell’oblast di Kaliningrad, si respira un clima di neo-militarismo. C’è un contingente di 30.000 uomini, protetto da un potentissimo scudo missilistico, talmente esteso da coprire la Lituania, buona parte della Lettonia e della Polonia, spingendosi fino all’isola svedese di Gotland, cuore pulsante del Baltico. Il ministero della Difesa, fra maggio e dicembre 2016, ha effettuato almeno due ispezioni alla flotta e silurato il capo, vice-ammiraglio Viktor Kravtchuk, insieme a una cinquantina di ufficiali e comandanti. Monito per tutti i 'gerarchi' della Marina, chiamati a maggiore disciplina e fermezza. La flotta del Baltico è in prima linea, anche se le sue unità non hanno molto da dire nei due teatri caldi del momento, il Levante mediterraneo e gli Oceani indiano e pacifico, che catalizzano diverse operazioni 'fuori area' della Russia.

Rispetto all’era sovietica, Mosca ha conservato la microbase siriana di Tartus. Vorrebbe 'riprendersi' la Libia, perché ha fortissimi interessi mediterranei, galvanizzati dagli affari dei suoi colossi energetici, Gazprom e Rosneft su tutti, in campo nell’offshore israeliano ed egiziano, e fortemente attratti dal dossier cipriota. Il generale Haftar è stato ospite frequente in Russia e ieri è salito sulla portaerei «Kuznetsov». Oggi però la Marina russa è molto più debole di un tempo nel Mediterraneo. Non ha i porti jugoslavi e l’Egitto è un’incognita. Nemmeno l’Algeria si presta facilmente. Ha sempre offerto le sue basi solo per esercitazioni congiunte e rifornimenti. A suo tempo, l’Urss aveva creato la quinta squadra del mar Nero appositamente per il Mediterraneo e la 17a squadra della flotta del Pacifico per l’Oceano Indiano. Cam Rahn, in Vietnam, era la principale base oltremare dei soviet. Il vento di rinnovamento che soffia intorno alla flotta del Pacifico dovrebbe permettere alla Russia una presenza navale sia nel mar Cinese meridionale sia nell’Oceano Indiano. Un’ambizione difficile da realizzare nel breve periodo. Quando ci saranno i mezzi, occorrerà una base logistica nell’area e i russi sembrano sulla buona strada per riaffacciarsi a Cam Rhan, porto che si trova a meno di 600 chilometri dagli arcipelaghi turbolenti delle Paracel e delle Spratly, e a 700 chilometri dalla base cinese di Sanya.

Una posizione strategica, che conferma l’attrazione globale per le basi oltreconfine. I russi ne vogliono una in permanenza anche nel Pacifico, a Matua, una delle isole Kurili a sud della penisola di Kamchatka. Annesse da Stalin nel 1945, le Kurili sono tuttora rivendicate dal Giappone, che reclama la restituzione di almeno un terzo della superficie totale. Non è mai stato firmato un trattato di pace. Anche perché i russi a tutto pensano tranne che a restituire le isole. Una missione di 200 tecnici ha fatto tappa a Matua, fra la primavera e l’estate scorsa, per saggiare la fattibilità dei progetti militari. Stanno arrivando artiglierie costiere e missili, perché Mosca spera di fare della flotta del Pacifico e delle Kurili un cuneo d’interposizione nella regione, con l’obiettivo di complicare l’equazione difficilmente risolvibile fra cinesi e americani nel Pacifico, un’area a fortissima militarizzazione ed espansione commerciale. È qui che si giocherà la partita principale nei prossimi decenni.

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