La fonte del bene
mercoledì 29 novembre 2017

«Non abbiamo paura delle differenze. Le differenze sono una ricchezza per la pace». Il nuovo passaggio a Oriente di papa Francesco, che sfiora l’India e la Cina, non poteva che attraversare le faglie di tensione del Paese birmano dalle migliaia di pagode, ammalatosi di totalitarismo per sessant’anni, e del Bangladesh musulmano rifugio per migliaia di sfollati, e cominciare da qui, dall’ex capitale birmana Yangon, che letteralmente significa "fine dei conflitti", per manifestare il suo scopo: fare strada alla cooperazione religiosa globale per la promozione della pace e la convivenza fraterna come unica via da percorrere.Pablo Neruda, che visse per un periodo a Yangon con l’incarico di console onorario del Cile, la descrisse come «una città di sangue, sogni e oro». A quel tempo, alla fine degli anni 20 del Novecento, Rangoon (gli inglesi l’avevano ribattezzata in questo modo storpiando il nome originale) era un melting pot di genti di etnie e religioni diverse e superava New York come luogo di immigrazione. Questo melting pot oggi non è cambiato: il Myanmar, fatto da oltre 135 etnie e di diverse minoranze religiose, ha faticato e fatica tutt’ora a convivere in maniera pacifica, in particolare con il governo centrale e la sua componente di maggioranza birmana.

Una società che nella fragile democrazia e nella costruzione dello Stato federale inclusivo si trova in un difficile processo di pacificazione nazionale. Deve infatti fare i conti con l’impatto delle ferite passate e presenti causate dai conflitti e con il lato oscuro di un buddhismo birmano patriottico e fondamentalista, che ha promosso un pacchetto di leggi "a difesa della razza e della religione", volute per colpire in particolare la minoranza musulmana. Le diversità religiose e culturali del Paese rendono pertanto imperativo promuovere il dialogo interreligioso, al fine di trovare un terreno comune per la riconciliazione e contribuire al bene comune. E proprio questo è stato il leit-motiv del primo discorso pronunciato ieri da papa Francesco davanti alle autorità del governo, per "una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e a ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune".

In questo lavoro di riconciliazione, d’integrazione nazionale e di costruzione del Paese, il Papa ha indicato come le comunità religiose del Myanmar abbiano «un ruolo privilegiato da svolgere».

Un ruolo che la minoranza cattolica si è assunta da tempo: conquistando la fiducia di tutte le comunità religiose, ha facilitato la realizzazione della recente Conferenza di pace di Panglong, una testimonianza importante, davanti al mondo, della determinazione delle religioni a vivere in concordia e a rigettare ogni atto di violenza e di odio perpetrato in nome della fede. Ed è certamente per incoraggiare in questa prospettiva la piccola comunità cattolica che va cercato il motivo della presenza del Papa in Myanmar, così come i frutti del suo passaggio passeranno dal dialogo chiave con i monaci buddhisti che oggi vedrà al Kaba Aye Center.

Anche l’incontro con i rappresentanti delle diverse comunità religiose costituirà un momento molto significativo della visita in Bangladesh. La rotta a Oriente di papa Francesco persegue il dialogo interreligioso. Rotta resa manifesta ieri mattina parlando a braccio in un incontro informale a Yangon con i leader religiosi buddhisti, musulmani, hindu, ebrei, anglicani e cattolici. Perché è il dialogo tra le religioni la condizione imprescindibile per la pace e la chiave per il perseguimento della giustizia.

Ancora una volta il Papa rilancia prospettive di riconciliazione, di unità e di pace che non valgono solo per il quadrante dell’Asia orientale, non solo in Myanmar e in Bangladesh, ma in tutto il mondo si ha bisogno di questa comune testimonianza da parte dei leader religiosi per archiviare pratiche antidialogiche.

La via suggerita dal Successore di Pietro e dalla Santa Sede, nel solco del minimalismo evangelico e del discernimento realista dei contesti, dimostra che è possibile muoversi in tutt’altra direzione rispetto ai cultori di conflitti permanenti, cronicizzati anche da chi in essi trova pretesto di affermazioni identitariste e da chi attenta al dialogo interreligioso sfruttando la religione per giustificare atti di violenza: «Costruite la pace. Non lasciatevi rendere uguali dalla colonizzazione culturale».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI