Competenza, speranza. E rimettere Dio in cima
domenica 7 giugno 2020

Non sembra vero, ma ci è dato di ripartire. Usciamo da mesi complicati e difficili: la paura ci ha segnato, portiamo con noi il dolore per tante persone care che non ci sono più, la normalità non è ancora piena. Eppure, siamo qui, forse diversi, più vulnerabili, in alcuni casi più arrabbiati, ma con una grande occasione tra le mani, l’occasione unica di chiederci cosa ci hanno insegnato questi mesi, chi siamo e come vogliamo vivere. Vogliamo archiviare questo tempo di isolamento e di fatica come un brutto sogno? Vogliamo fare finta che il peggio sia passato? Vogliamo guardare subito avanti come se volessimo dimenticare? Scelte legittime, ma che non servono a niente, se non a renderci superficiali e indifferenti. Poniamoci invece una domanda: questa tragedia può essere il punto di partenza per diventare migliori? Non abbiamo molta scelta se desideriamo dare un senso a quanto abbiamo vissuto. Sta a noi scegliere.

Nessuno può farlo al nostro posto. Competenza e speranza sono le due parole chiave che mi vengono incontro. Toccano da vicino la responsabilità di tutti noi e in particolare di chi amministra la res publica, sia esso un politico o un funzionario che ricopre incarichi di servizio pubblico o sociale. In questi mesi sono venute a galla tante mancanze. Sono tanti i politici e i funzionari onesti e competenti, che vivono il loro ruolo come un servizio e una vocazione, ma è evidente che questa emergenza ci ha trovato impreparati ad affrontare il virus, soprattutto in molte Rsa e sul territorio. Da tutto questo però possiamo trarre un insegnamento che ci aiuti a rilanciare la politica e la pubblica amministrazione come spazio ideale, come orizzonte di senso, in cui dare ali a progetti di bene, a grandi valori, a speranze vere. La competenza, lo studio, un metodo e una formazione permanente devono tornare al centro di tutto. Non ci possiamo improvvisare. A parole tutti vogliono risolvere i problemi. Nei fatti, continuiamo a disperdere sforzi ed energie in sterili polemiche e battibecchi di corto respiro, dispute di potere più che confronto sui contenuti.

È come se non comprendessimo la gravità dei mesi che ci aspettano, la rabbia di tanti che sta già affiorando, la povertà che molto probabilmente aumenterà. Perché dobbiamo essere chiari: il nostro impegno deve partire soprattutto dalle fasce più deboli: dagli anziani, dai bambini, dai giovani, dai senza casa, dai disabili. Sogno una classe dirigente di persone appassionate, a tutti i livelli, pronte a investire le risorse migliori nella ricostruzione, a fare rete con le realtà più autorevoli del Paese, a comunicare entusiasmo e serietà ai giovani. Figure come Giorgio La Pira, per esempio, che tanti anni fa mi fece innamorare della profezia di Isaia, di un tempo in cui le armi non sarebbero state più costruite. Vedeva lungo La Pira: aveva capito che gli investimenti bellici distolgono risorse enormi dallo sviluppo, uccidono, tolgono futuro. La sua lezione non è stata compresa.

Ma chi ci impedisce oggi di riportarla al centro di un confronto? Di fissare nuove priorità nei bilanci del nostro Stato e degli altri Stati? Non parlo da sognatore. La vita degli Arsenali del Sermig è concretissima, mi ha insegnato che è possibile davvero cambiare il nostro modo di pensare, che è possibile credere in una nuova economia, in una nuova politica, in una nuova cultura che rimetta al centro l’uomo, che riparta con il dare priorità alle fasce più deboli. Chi ci impedisce di ripartire da qui? Non possiamo permetterci di volare basso o di fare scelte mediocri. È in gioco il futuro di un’intera generazione ed è necessario un salto di qualità che coinvolga i più diversi ambiti. Vale per tutti: per chi fa impresa, chi fa sindacato, chi influenza le tendenze culturali, chi guida le chiese, le università, le associazioni, chi governa la politica.

Tutti sono classe dirigente! Ripartiamo dalla serietà delle competenze, ripartiamo dalla speranza di imparare da quello che abbiamo vissuto, ripartiamo dando un nome anche alla nostra paura, alle nostre fragilità. Ripartiamo dai problemi che incrociamo, proviamo a guardarli in un modo diverso: già trasfigurati e trasformati, opportunità di vita per noi e per tutti. Ripartiamo dai giovani. Trasmettiamo loro la responsabilità di rinnovare dall’interno la società in qualunque ambito scelgano di operare. Chiediamo loro di prepararsi con più serietà di prima, di entrare in politica, nel mondo della scuola, in ogni ambito della società con passione, con onestà, con determinazione. Da cristiano in questi mesi ho sentito poi un’urgenza ancora più grande. Ripartire da Dio, perché solo in Lui c’è la speranza che non tramonta. Rimettere Dio al primo posto non equivale ad avere la sicurezza di starsene tranquilli. Anzi. Significa lasciarsi disturbare dall’imprevisto, scegliere di stare con i poveri, oggi sempre più poveri. E riscoprire la vera autorevolezza di chi ha una responsabilità di governo in quella frase di Gesù: «Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti».

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