giovedì 8 marzo 2012
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Nel les­sico politi­co israeliano c’è un collau­dato cambio di scena nel quale la retori­ca e le astuzie diplomatiche la­sciano il posto ai tamburi di guerra. Il momento-chiave di solito è il riferimento alla Shoah. E’ accaduto nel 2006 con la risposta militare ordinata dal premier Olmert all’incursione di Hezbollah in territorio israe­liano e la successiva operazione militare in Libano, è accaduto di nuovo nel 2008 all’alba dell’o­perazione Piombo Fuso contro Hamas a Gaza, riaccade oggi, allorché davanti alla platea dell’Aipac (la più influente lobby filo-israeliana degli Stati Uniti) il premier Benjamin Ne­tanyahu ha fatto riferimento al­le responsabilità che gli alleati si assunsero nel 1944 rifiutandosi di bombardare il campo di ster­minio di Auschwitz nonostante le suppliche del Congresso e­braico mondiale. Un più che e­splicito riferimento al pericolo rappresentato dalla centrale nu­cleare iraniana di Natanz, fulcro delle preoccupazioni del gover­no israeliano, che ha fatto dire al premier: «Nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo». Fuor di metafora, Ne­tanyahu sta preparandosi alla guerra, nonostante un’opinione pubblica che all’81% è contraria a un attacco solitario da parte di Israele e al 60% disapprovereb­be anche un’azione congiunta con gli americani. Indubitabilmente il dossier Iran è la mina vagante che maggior­mente insidia non solo l’equili­brio dello scacchiere medio­rientale, ma anche il futuro del mercato delle materie prime e – sono in molti a Washington a pensarlo – la permanenza stes­sa di Obama alla Casa Bianca. Secondo Mark Fitzpatrick del­l’International Institute for Stra­tegic Studies (Iiss) di Londra, «sul piano strategico l’Iran ha scarse possibilità di un’efficace ritorsione nei confronti di Israe­le, nonostante l’arsenale di mis­sili Shahab-3, Sejil-2 e Ghadr-1». Ma sempre da Londra rimbalza un’allarmante informativa dell’MI6, il controspionaggio militare, in base alla quale Tehe­ran punterebbe a munirsi di missili intercontinentali, in gra­do di colpire qualunque città europea, Gran Bretagna com­presa, che dista 4.400 chilometri dall’Iran. Quanto alle materie prime, da sempre gli analisti internazio­nali fanno riferimento allo chock petrolifero innescato dal­la guerra dello Yom Kippur del 1973 e dalla caduta dello Scià nel 1979, che vide i prezzi del greggio schizzare drammatica­mente verso l’alto, ma questa volta le previsioni non si limita­no a un brusco rialzo (ieri a New York il barile valeva 105 dollari e il Brent 122,5), bensì a un inimmaginabile fixing di 440 dollari: insostenibile per qua­lunque economia, anche la più ricca. Analoghe previsioni fanno i tra­der di metalli pregiati, ma forse la più esplicita è quella del se­guitissimo Gloom Boom & Doom Report dello svizzero Marc Faber, che nella sua new­sletter definisce il rischio di guerra fra Israele e Iran «almost inevitable» (pressoché inevita­bile) e ai suoi clienti invia una graziosa 'cartolina' elettronica con un dipinto che raffigura u­na danza macabra. Si danza, come s’intuisce, sul­l’orlo di un vulcano. Obama – che teme un verticale calo di popolarità in caso di guerra – preme per una soluzione diplo­matica, pur riconoscendo che un Iran dotato di armamento nucleare sarebbe un pericolo intollerabile per la sicurezza di Israele, cui Washington ricon­ferma «tutto il sostegno neces­sario affinché mantenga la sua superiorità militare». Ma davvero un attacco è inevi­tabile? In realtà no. Sono in molti a ritenere che Teheran stia alzando temerariamente la po­sta (ora minacciando il blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita il 35% del petrolio mon­diale, ora mandando naviglio da guerra nel Mediterraneo) per meglio negoziare la propria ri­nuncia al programma nucleare militare. In palio ci potrebbe es­sere l’ingresso dell’Iran nel Wto e la restituzione dei beni conge­lati agli ayatollah dopo la vicen­da degli ostaggi americani nel 1979 (almeno 10 miliardi di dol­­lari), ma soprattutto la revoca delle sanzioni internazionali, che hanno fatto del regime ira­niano una sorta di grande Cuba, isolata dai rapporti con l’Occi­dente (e quindi dalla moderniz­zazione) anche se ricca di giaci­menti petroliferi. Per ora si combatte ancora una guerra di nervi. L’importante è continua­re ad averli saldi.
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