mercoledì 23 aprile 2014
L’uso eccessivo degli antibiotici li sta rendendo inefficaci
di Vittorio A. Sironi
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Rischiano di divenire armi spuntate gli antibiotici che usiamo abitualmente per curare e sconfiggere le malattie infettive: un effetto del loro eccessivo e spesso inadeguato uso nell’ambito delle medicina umana e, ancor di più, in campo veterinario. La prescrizione di antimicrobici per la terapia di patologie febbrili di origine non batterica, come quelle virali, non solo non serve per guarire queste patologie (spesso banali, come l’influenza), ma diventa un boomerang per la tutela della salute. La presenza di grandi e persistenti quantità di antibiotico nel corpo di un malato seleziona ceppi di batteri che diventano resistenti al tipo di farmaco utilizzato, rendendo così inefficace il suo eventuale successivo uso quando questo fosse realmente necessario. La grande velocità riproduttiva dei batteri – alcuni si moltiplicano in decine di migliaia di esemplari nel giro di pochi minuti – amplifica ulteriormente il fenomeno. Spesso, soprattutto in ambiente ospedaliero, ci si trova di fronte a patologie infettive causate da "superbatteri" resistenti ai farmaci che sovente diventano letali per il malato.  
Le segnalazioni di nuovi "superbatteri" resistenti agli antibiotici disponibili diventano sempre più frequenti. L’ultimo allarme poche settimane fa. Uno studio del Centro per la prevenzione e il controllo della malattie di Atlanta, pubblicato sulla rivista Emerging Infectious Diseases, afferma che il batterio responsabile della gonorrea, una delle più comuni malattie a trasmissione sessuale, sino a ora facilmente curabile, sta diventando resistente a tutti i farmaci. Attualmente il germe non viene debellato dalle penicilline e dalle tetracicline, due tra i più datati e utilizzati tipi di antibiotico, e l’unico trattamento efficace rimasto è quello con le ciclosporine. Anche se al momento negli Stati Uniti non sono emersi ceppi immuni alle ciclosporine, sottolineano gli autori dello studio, in altri Paesi si stanno già manifestando ed è solo questione di tempo prima che la diffusione di questi germi resistenti diventi sempre più ampia, coinvolgendo territori ancora indenni. Un’indagine epidemiologica svolta negli ultimi due decenni in diverse città statunitensi ha evidenziato che è sufficiente la presenza di un decimo di forme di gonorrea farmacoresistenti sul totale dei casi osservati per provocare quasi il raddoppio dell’incidenza nella comparsa di nuovi malati. «Sulla base dell’esperienza derivata dall’uso di altri farmaci – concludono gli autori – la diffusione di un ceppo resistente negli Usa appare imminente».
Ancora più angosciante la recente notizia su una forma di tubercolosi resistente agli antibiotici che sta velocemente espandendosi in Russia. Secondo gli esperti, è dovuta a un "superbatterio" che per una mutazione genetica è in grado di diffondersi molto più rapidamente rispetto al comune germe, oltre ad essere resistente ai farmaci impiegati nella cura di questa infezione. In particolare, anche a quelli di "seconda linea", cioè gli antibiotici ritenuti più potenti usati solo quando quelli abituali (rifampicina e isoniazide) risultano inefficaci. D’altra parte le forme di Mdr-Tb, sigla che identifica le forme di tubercolosi multiresistente alla terapia, non sono un fenomeno nuovo. Le prime segnalazioni risalgono al marzo del 2006, ma il vero allarme scattò nell’estate di quello stesso anno, dopo l’epidemia scoppiata in Sudafrica, con una mortalità quasi del 100 %. Oggi in Italia, sugli oltre seimila casi di tubercolosi annui, solo il 3,7% riguarda forme multiresistenti, ma nel mondo, su quasi 9 milioni di malati (con una mortalità che si avvicina al milione e mezzo), ben il 10% è multiresistente.
Il problema della resistenza batterica è stato ulteriormente acuito negli ultimi decenni dall’indiscriminato uso di antibiotici in ambito veterinario. La loro somministrazione ad animali, soprattutto bovini, non malati – quindi senza una motivazione terapeutica – era determinata dal notevole incremento ponderale che essa determinava. Una pratica quindi non giustificata da ragioni sanitarie, ma esclusivamente da fini commerciali. Anche se l’Europa ha posto al bando negli allevamenti l’uso non terapeutico di antibiotici (la prima norma risale al 1997 mentre la proibizione totale è in vigore dal 2006), limiti meno vincolanti sono in atto negli Stati Uniti, mentre in molti altri Paesi tali limitazioni non esistono affatto. Questa massiccia diffusione di antibiotici nell’ambiente (perché dispersi con i liquidi biologici degli animali) e nella popolazione (perché inconsapevolmente ingeriti con le carni delle bestie trattate) ha determinato una "bomba ecologica" incontrollata, destabilizzando rapidamente il delicato equilibrio biologico tra ambiente, genere umano e germi (patogeni e non patogeni) stabilitosi nel corso dell’evoluzione. Ciò rende oggi più difficile respingere gli "assalti" dei germi patogeni, agenti infettivi contro i quali la medicina aveva saputo trovare efficaci difese. Il fenomeno della resistenza batterica, inizialmente tipico dei Paesi industrializzati dove l’uso degli antibiotici in terapia umana è esploso subito dopo il secondo dopoguerra, è andato poi interessando anche il resto del mondo, mano mano che si è diffuso l’uso terapeutico di questi farmaci. Oggi è un problema globale, reso ancora più grave dalla facilità di viaggiare, che espone al rischio di una diffusione in tempi rapidissimi dei "superbatteri". 
La resistenza batterica è un problema che mette a dura prova le capacità "creative" della medicina e dei suoi operatori. Quali le strategie per arginare questo esplosivo problema? Un uso più consapevole degli antibiotici sul territorio e dentro gli ospedali rappresenta la strada maestra. Ugualmente è fondamentale interrompere l’indiscriminato impiego non terapeutico degli antibiotici in ambito veterinario. Ma, nonostante tutto, ciò potrebbe non bastare. Di fronte all’avanzata dei "superbatteri" resistenti dobbiamo approntare nuove armi per contrastarli e mettere a punto nuove tecniche per riconoscerli. Dalla fine degli anni 80 non sono state più inventate nuove classi di antibiotici. Quelli che ora usiamo, anche i più recenti, sono molecole messe a punto dall’industria farmaceutica parecchi decenni fa, dalla metà degli anni 40 agli inizi degli anni 80. Da allora lo sviluppo di nuovi antibiotici si è di fatto arenato: da un lato perché si pensava che ormai il campo fosse saturo, dall’altro perché l’industria ha preferito percorrere vie economicamente più vantaggiose, "dimenticandosi" dei bisogni dei malati (soprattutto quelli dei Paesi poveri). Tutto questo mentre molti germi diventavano resistenti ai farmaci disponibili. Per superare questo vuoto occorre che l’industria farmaceutica riprenda – e possa essere, se necessario, incentivata a farlo – la ricerca per scoprire e produrre nuovi antibiotici, tenendo conto che prima dell’arrivo in ambito terapeutico di un nuovo farmaco passano non meno di 15-20 anni dall’inizio della ricerca. Se si incominciasse a lavorare ora, gli antibiotici per gli attuali "superbatteri" non saranno disponibili prima del 2030.
Le biotecnologie possono darci un aiuto prezioso per riconoscere questi infidi germi e accelerare la ricerca di nuovi rimedi. Alcuni scienziati britannici sono riusciti a ottenere la prima mappa completa del Dna di uno dei "superbatteri" più diffuso negli ospedali, lo Stafilococco aureo resistente alla meticillina. L’analisi del genoma ha permesso di identificare 125 mutazioni genetiche responsabili della sua tossicità, rendendo possibile riconoscere i tipi di microbo con la variante che induce farmacoresistenza. Questa metodica, applicata alla clinica, consentirà due vantaggi: da un lato di facilitare all’industria la strada per realizzare nuovi antibiotici efficaci su germi mutati; dall’altro di consentire al medico di personalizzare la terapia antibiotica del malato ottenendo, con un semplice tampone salivare, la tipizzazione del germe all’origine dell’infezione in modo da evitare il rischio di farmacoresistenza. Queste strategie potranno salvarci da quella che potrebbe essere in futuro una vera apocalisse post-antibiotica.
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