sabato 12 febbraio 2011
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Abbiamo seguito per giorni e giorni, tenendo il respiro, le notizie sulle due gemelline scomparse, portate via dal padre che si è buttato sotto il treno a Cerignola. Per giorni abbiamo invocato, dentro di noi, durante le ricerche e le investigazioni in Italia, in Corsica, in Svizzera, che le poche tracce lasciate come briciole sul cammino dell’uomo verso la morte portassero a ritrovare le figlie, a ritrovarle vive. E adesso invece, dentro gli enigmi delle lettere giunte come anelli postumi di una crudele sciarada, emergono parole come pugnalate, che sbriciolano la speranza. Prima di uccidersi, le ha uccise; ha scritto che le ha uccise, ha scritto alla madre che le ha uccise.D’impeto diciamo "follia". Follia è la parola di fuga da un orrore che la ragione non regge. Follia è la parola di scampo dall’atterrita visione del male. È lo specchio dei nostri inferni umani, di un buio abisso che inghiotte le speranze, che devasta la vita (la vita dei figli, il dono, il germoglio, il futuro) come rovescio d’un paradiso perduto. No, non ci basta dire follia, l’accaduto ci inchioda invece all’unico e ultimo quesito dell’esistenza, quello sul bene e sul male, sul senso e sull’assurdo, sull’essere e sul nulla. Molti proveranno a rileggere questa storia di morte esplorando gli impulsi oscuri che vengono dai deliri vissuti, dalle suggestioni e dagli idoli sociali, dalle subculture, dai fantasmi assimilati dell’orrore. E parrà possibile forse percorrere l’intero imbuto della disperazione, dentro una storia di crisi familiare irrisolta e precipitata, fino a far dire all’uomo di sentirsi "perduto". E interrogarci un’altra volta sulle dinamiche distruttive che pervertono le energie dell’amore volgendole in morte, e perché.Quando ci sono segni premonitori, in queste crisi che rasentano il precipizio, è necessaria un’attenzione sociale, e qualche soccorso offerto in prevenzione, che scongiuri le tragedie annunciate. Quando accadono, sono devastanti. Ci mozza il fiato che la barriera etica elementare del "non uccidere" possa essere sfondata così, ma forse un filo oscuro lega insieme gli infiniti altri contesti di disprezzo e violenza contro la vita, in una sorta di caos etico. C’è talvolta, in simili delitti "familiari", persino una lucidità che raffina i tormenti, e sceglie fra le torture quella che più strazia l’anima. Mortificare è letteralmente "far morire"; è l’umiliazione, la tensione, l’angoscia prolungata, la vendetta, il dire "le figlie sono morte, non le vedrai più" è parola letale perché il dolore di un figlio morto è più dolore che il morire. È il paradigma di una crudeltà che si avvita nella disperazione traboccata e la propaga, mentre si autodistrugge.Non ci andrà via dal cuore, mai, l’immagine delle due gemelline. Le cerchiamo ancora, perché se il papà era folle, la loro morte è la parola di un folle. Ma se sono morte, non ci basteranno le lacrime. C’è una disperata domanda che bussa al cielo con le parole di Giobbe, a chieder perché dell’innocenza uccisa. C’è il peso di un cosmo sconciato dai nostri deliri, dall’odio che ci strania, dal male che ci usa per far male. C’è il pianto infinito che implora la misericordia d’un miracolo, "liberaci dal male".
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