Stop al trionfo assassino della società dello spettacolo
martedì 19 marzo 2019

A Christchurch, in Nuova Zelanda, si è compiuta l’apoteosi della società dello spettacolo. Pensavamo fosse una cosa innocua, da lasciare agli studi di qualche ricercatore che riferisce ai convegni e tutto come prima, in fondo qualcosa di gradevole perché allieta la nostra fragile esistenza conferendole sicurezza perché tutti – tutti, tutti – prima o poi avremo la nostra occasione e finiremo in televisione, alla radio, o almeno su Twitter e Facebook, a contare i like con lo stesso sguardo avido ma innocuo di uno zio Paperone che ripone le monetine nel deposito. Se zio Paperone è il suo tesoro, noi siamo l’immagine che forniamo di noi e che di noi gli altri colgono e ci restituiscono. Quanti "altri"? Il più possibile.

Brenton Tarrant, assassino di persone inermi colpevoli di avere fede musulmana e di pregare, ha fatto ciò che era ampiamente prevedibile. Ha reso lo spettacolo – i videogiochi sparatutto – una realtà riducendo la realtà a spettacolo. L’aveva scritto in tempi non sospetti, nel 1967, quel matto, geniale, narciso, illeggibile di Guy Debord: «Lo spettacolo non è un aspetto marginale della società. Lo spettacolo rappresenta la struttura della società dei consumi». Il suprematista Tarrant non c’entra nulla con i situazionisti, ma ne realizza una profezia (forse) inconsapevole: il trionfo macabro del consumismo ipercapitalista. Se tutto – tutto, tutto – è merce, e se tutto – tutto, tutto – è spettacolo, l’esito finale è che diventi merce-spettacolo ciò che più temiamo e che al tempo stesso ci attrae, la morte. In diretta, sì.

Tarrant conosce, per averle apprese empiricamente, due regole fondamentali per realizzare la merce-spettacolo definitiva: la sintassi dell’odio e la mercificazione degli esseri umani. Io odio e ho ottimi motivi per odiare, i motivi del suprematista che si sente aggredito, invaso, vilipeso e, avendo un’identità fragilissima, impalpabile, evanescente, ha un solo modo per affermarla: negare l’identità altrui. Chi prega dovrebbe averne una, crederà pure in qualcosa di importante che dà senso alla sua vita; costituisce una comunità, ossia una forza d’invasione organizzata.

Il secondo passaggio è facile: se ficco gli esseri umani in un videogioco, essi diventano comparse del videogioco che io organizzo e comando, oggetti e merci da consumare, ossia eliminare, gettare e sostituire. Il massacro, così, non ha mai fine, proprio come accade a un consumatore privo di controllo che riempie forsennatamente il carrello al supermercato, s’ingozza di junk-food (ovvero cibo spazzatura), s’incolla alla slot machine fino all’esaurimento dei soldi o delle energie. Uccide e uccide senza essere mai sazio.

Non c’è alcun dubbio che Tarrant si sentisse bene mentre realizzava la sua diretta, bene come mai in vita sua mentre immaginava i contatti ed eliminava uomini, donne e bambini senza alcuna emozione, se non il proprio narcisismo gratificato all’estremo. Un caso isolato? L’esito ultimo, irripetibile, di altri casi analoghi passati, magari registrati e messi sul web, ma senza l’adrenalina della diretta? Magari lo fosse. È orribile pensarlo e ancor più scriverlo, ma Tarrant potrebbe essere l’avanguardia di un esercito sgangherato, minuscolo ma letale, che trova agevolmente la propria giustificazione negli atteggiamenti furbi di chi è impegnato in altre immonde compravendite: odio in cambio di voti, risentimento in cambio di like, minacce improbabili per distogliere lo sguardo da ciò che davvero attenta alla nostra libertà, alla nostra ricerca della felicità, in cambio di potere. Teniamoci pronti. Abbiamo ingurgitato con una smorfia di disgusto, forse, ma senza davvero reagire sul piano culturale ed educativo, all’irruzione dello spettacolo e delle merci come tiranni assoluti. «Lo spettacolo integrato si mescola completamente alla realtà senza lasciare zone d’ombra». Troppo tardi per resistere e reagire? No, se sapremo creare oasi sottratte alla tirannia, e da qui ripartire alla riconquista, dolce e lenta e forte, delle coscienze.

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