sabato 28 ottobre 2017
«Ormai edifichiamo città sempre più ostili ai bambini e comunità sempre più inospitali per gli anziani» ha detto Francesco alla Pontificia accademia per la Vita. Perché? E come intervenire? Le idee
Spazi liberi e condivisione. Ecco la città per i bambini
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«Ci sono muri, visibili e invisibili. La città privatizzata diviene un arcipelago di luoghi isolati, a volte drasticamente separati». Pier Luigi Cervellati, urbanista di grande esperienza, riflette sulle parole pronunciate da papa Francesco il 5 ottobre scorso, nell’ambito dell’assemblea generale della Pontificia accademia per la vita: «Ormai edifichiamo città sempre più ostili ai bambini - ha detto il Santo Padre - e comunità sempre più inospitali per gli anziani, con muri senza né porte né finestre: dovrebbero proteggere, in realtà soffocano». Un invito insistente, che riprende concetti già esposti nella 'Laudato si’'. «Non è stato sempre così – ricorda Cervellati –. Nel secondo dopoguerra, quando ero ragazzo, si viveva in povertà. Ho ancora presente il freddo nelle notti invernali, senza riscaldamento. Ma il cuore era caldo: c’era comunità. La si viveva nelle strade. Da bambini e da giovani si giocava nelle strade che non erano ancora state sequestrate dalle automobili. Non c’era nulla, ma si inventava tutto. Si litigava e si immaginavano avventure fantastiche. Ci si incontrava, tra noi, e con gli anziani, e con quelli dei quartieri vicini. C’erano i figli degli operai e quelli dei professionisti, i poveri e i meno poveri, le classi medie e i proletari. A parte i ricchi, ci si trovava tutti assieme, senza distinzioni. Oggi dove vanno i bambini? In giocherie dove tutto è programmato e definito. E tutto è a pagamento». Per i vecchi vale lo stesso discorso?

«Peggio! Si pensi ai ricoveri che sono gabbie per coloro che non hanno altro da attendere che la fine: nascosti dal mondo, lontani, estranei alla vita. Un tempo c’erano i bar, le bocce, le piazze. Oggi nei parchi a volte si trovano panchine di acciaio studiate per scoraggiare chi desidera sedervisi. Ricordo che nel caldo estivo un ministro suggerì agli anziani di rifugiarsi nei supermercati: sono questi dunque i luoghi deputati alla vita sociale? Vagare tra gli scaffali calcolando mestamente quanto si possa spendere per tirare sino a fine mese? Tutto oggi, anche nell’ex Bologna rossa, è privato, circoscritto, limitato, separato, a pagamento. Dovrebbero non esserci più barriere architettoniche, ma salire su un autobus per molti è un incubo.

Non ci sono più osterie, solo fast food. Credo che Milano stia meglio quanto a spazi pubblici: sono aumentati gli spiazzi verdi, si trovano orti assegnati dal Comune per far crescere un poco di piante...». La richiesta di luoghi pubblici dove incontrarsi ed essere 'città' vale dunque per i piccoli quanto per gli anziani: nel segno della facilità di transito e della libertà di movimento. Per quanto possa apparire paradossale, sono simili le richieste formulate da chi si occupa di sicurezza, a fronte delle condizioni di crescente minaccia terroristica e di violenza urbana. Non si richiedono barriere dietro cui nascondersi, ma al contrario «la prima cosa da capire è che la pace della città non è garantita in prima istanza dalla Polizia... ma da una rete di controllo volontario esercitata dalla popolazione stessa». E questa «può esistere solo in una città vitale, dove le strade sono usate di giorno e di notte, dove l’ambiente ispiri fiducia, e i quartieri sono apprezzati dai loro abitanti»: lo sostiene un rapporto compilato dal Laqus (Laboratorio sulla qualità urbana e la sicurezza del Politecnico di Milano). E i quartieri asserragliati, fortificati che son sorti qua e là per difendere aree di privilegio, sono considerati nefasti, proprio perché accentuano le divisioni: altro sono le distinzioni anche di ceto, altro le separazioni che disgregano il senso di appartenenza.

La richiesta di spazi pubblici è generale e riguarda chiunque, per quanto maggiormente sia sentita dalle fasce più deboli: anziani e bambini. Anche Adrian Voce, presidente della fondazione britannica Child in the City, sostiene a spada tratta la necessità di ritrovare spazi pubblici e liberi. Anzitutto perché i bambini possano tornare a inventarsi i loro giochi: «Sappiamo – dice Voce – che le condizioni migliori per il gioco sono quelle che favoriscono l’iniziativa libera, che offrono spazi e risorse in cui i piccoli possano esercitarsi a esplorare e a manipolare. Dove possano giocare con serietà simile quella con la quale da adulti affronteranno gli impegni lavorativi. Nessun bambino gioca per al fine di migliorare le sue capacità future: eppure nel giocare ottiene proprio quel risultato. I bambini giocano ovunque, ma hanno bisogno di spazio, e questo gli è sempre più negato: dal traffico, dal commercio, da sistemi di distribuzione degli spazi pubblici che non considerano le loro necessità e che rendono sempre meno accessibili i luoghi aperti. La paura stessa del bullismo e la richiesta di ritmi di vita sempre più strutturati, fa sì che i bambini vivano in condizioni simili a quelle dei 'polli in batteria'. Il mercato gioiosamente si inserisce, fornendo spazi chiusi per il gioco. Ma il diritto al gioco si deve fondare sulla libertà di muoversi. Ci vorrebbe una strategia nazionale per il gioco dei bambini: non per indirizzarli, ma per fornire loro spazi adatti e liberi... ».

Libertà di muoversi per sollecitare la creatività: un discorso che vale per i ragazzi ma anche per gli anziani. «Bisogna pensare a nuovi approcci, a nuovi progetti che si avvalgano anche delle tecnologie più avanzate: possono aiutare soprattutto gli anziani a sentirsi parte di questo mondo attuale» sostiene Giancarlo Marzorati, architetto che ha disegnato buona parte della Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia, uno dei maggiori poli industriali europei) postindustriale. «I miei amici che vanno in pensione dopo una vita attiva sono terrorizzati: che faranno? Le nuove tecnologie possono aiutare molti a mantenersi attivi, comunicando col mondo. In questi decenni i centri commerciali, templi del consumismo, sono divenuti luoghi di socializzazione, ma in futuro non sarà più così. Il futuro è del co-housing e del co-working: ambienti studiati per ridurre le spese dell’abitare e del lavorare. Ma penso che possano divenire veicoli per un nuovo modo di vivere, giocando e lavorando assieme: a prescindere dall’età...». Anche Vezio De Lucia, urbanista e già assessore a Napoli negli anni ’90, guarda in una direzione simile: «A Piacenza in via sperimentale hanno provato a ubicare centri per anziani in prossimità di asili per bambini, per favorire l’incontro. E s’è visto che c’è stato dialogo. Sono esperimenti che meriterebbero maggiore attenzione. Perché gli spazi per una nuova socialità ci sono: per esempio le scuole. Son luoghi pubblici, usati di solito la mattina: perché non aprirli al di fuori dell’orario delle lezioni, per svolgere attività culturali cui chiunque possa partecipare? A Napoli hanno già tentato questa via».

Ma il problema, evidenzia Cristina Bianchetti, urbanista del Politecnico di Torino è che non è la società nel suo complesso che «protegge, facilita, accoglie bambini e anziani (ma anche adulti, uomini e donne) se non entro le lasche maglie di un welfare sempre più evanescente e povero. Esistono solo delle enclave: realtà minute, spesso transitorie, che possono apparire accoglienti e protettive. Dove si condividono progetti, paure, inquietudini, memorie. Vi si sta solo con chi si sceglie: nelle periferie urbane come nelle frange agricole o nelle borgate alpine, ma anche in città ricche come Ginevra e Berlino. Vi si celebrano valori che sono veri e propri miti contemporanei: la frugalità, la reciprocità, la vicinanza, un ecologismo spesso intransigente. L’entre nous, la condivisone, dovrebbe essere osservata con maggiore distanza critica. Questo modo di abitare la città esprime anche una volontà di isolarsi e negare la condizione stessa della città che è sempre, per sua natura, conflitto, tensione, contrasto.

La condivisione è parola scivolosa, troppo facile da accogliere entro sguardi benevolenti. Con la diffusa tendenza a cercare protezione nella comunanza, nell’appartenenza a gruppi sociali omogenei, nel giocare tra simili. Vi si cela una diffidenza per le istituzioni che è il contrario della protezione sociale...». Insomma, il rischio è che si generino zone protette ma isolate, tra persone che si riconoscono simili ma rifuggono l’alterità: cosa tanto più rischiosa in questa società necessariamente sempre più aperta, multietnica, internazionalizzata.

Al riguardo, chiosa Vezio De Lucia, il problema è che «manca un sostegno istituzionale: se quelli che son stati sinora piccoli esperimenti locali fossero promossi a livello nazionale, diverrebbero veicolo di una nuova, generalizzata cultura della condivisione. Le potenzialità ci sono e le si vedono proprio ove ci si è mossi in tale direzione. Quando ero assessore a Napoli mi occupai del parco di Scampia: in quella che sembrava fosse una realtà di forte degrado, il grande parco è diventato una frequentata area verde aperta agli incontri. Non se ne parla, ma c’è...». Come vi sono tante altre realtà che potrebbero crescere. A cominciare da quelle parrocchiali, presenti in tutta Italia: luoghi dove da sempre bambini, adulti e anziani trovano la possibilità di incontrarsi, e dove sempre di più giocano assieme anche bimbi provenienti da culture e religioni diverse. Nelle città vi sono i muri e le divisioni. Ma c’è anche la via per superarle: è questione di scelta e di impegno civile.

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