mercoledì 26 novembre 2008
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Il recente accordo fra Stati Uniti e governo iracheno per un ritiro concordato delle truppe Usa entro il 2011 conferma il progresso negli sforzi di stabilizzazione del "nuovo Iraq". Le elezioni provinciali del gennaio 2009 saranno un ulteriore test per verificare la capacità di tenuta complessiva del Paese e per cercare di superare il settarismo etnico-religioso che finora ha caratterizzato la scena politica. Tuttavia, nulla potrebbe essere più pericoloso di un eccesso di ottimismo e dal ritenere irreversibile il processo di consolidamento, come è stato ribadito in un incontro di riflessione e conciliazione fra i rappresentanti delle comunità etno-religiose sciite e del parlamento iracheno, organizzato in questi giorni " come ormai da diversi anni " al Centro Volta di Como per conto del ministero degli Esteri italiano. In Iraq sono ancora molti i problemi sul tappeto. E le forze politiche sono finora state incapaci di affrontarli con efficacia. Innanzitutto, vi è la questione della sicurezza. Il miglioramento è avvenuto grazie al "surge" voluto dal generale Petraeus, il quale ha aumentato le forze americane sul campo, le ha meglio dislocate e ha promosso contatti con i capi tribali sunniti. Con il progressivo ritiro dalle città dei soldati americani, sapranno le forze locali affrontare e gestire con equilibrio le sfide che le attendono? Soprattutto, come verranno integrati i "Figli dell'Iraq", ossia i combattenti sunniti che si sono sollevati contro al-Qaeda e i jihadisti? In cambio del loro aiuto, era stato promesso l'inserimento nelle Forze armate, ora troppo sbilanciate a favore di sciiti e curdi. In realtà, molti non troveranno posto nell'esercito e nella polizia, rischiando di rimanere senza paga o venire assegnati a lavori di status inferiore. L'esecutivo al-Maliki non fa mistero di non fidarsene e mostra scarso spirito di apertura. A livello politico la situazione è ancora più complicata: l'alleanza elettorale sciita è in pezzi e i diversi partiti che la compongono si preparano a fronteggiarsi nelle elezioni provinciali. Una contrapposizione che rischia di lacerare il governo. In Parlamento, nonostante anni di di tentativi, non si è ancora trovato un accordo sulle grandi questioni: come spartire i proventi petroliferi, come riformare la Costituzione, come gestire le "città miste", abitate da curdi, arabi sunniti e sciiti, cristiani, turkmeni e altre minoranze. Nessuna parte politica vuole fare uno sforzo per trovare un compromesso onorevole. In particolare, i curdi agiscono sempre più come un elemento di fatto estraneo al Paese, mostrando un forte antagonismo verso le altre comunità. Sempre più voci li indicano quali maggiori responsabili degli attacchi sanguinosi alle comunità cristiane, in particolare a Mosul, come implicitamente confermato dalla sostituzione dei responsabili (curdi) della sicurezza in quella regione. A livello economico, la ricostruzione è stata condizionata dal dilagare della corruzione e dalla proliferazione di posizioni clientelari o di impieghi improduttivi, mentre l'aumento della produzione petrolifera è in grave ritardo. Gli iracheni sono sempre più esasperati dalla mancanza di acqua, energia e dalla penuria di benzina. Con il crollo del prezzo del greggio e la crisi economica mondiale, le prospettive non si annunciano rosee: chi pagherà il costo della malagestione? La recente visita del ministro degli Esteri Frattini ha confermato l'impegno italiano di cooperazione e sostegno al governo al-Maliki, ma ha anche ribadito le preoccupazioni per la sorte dei cristiani. Un messaggio che deve essere estremamente chiaro: un Iraq che non difendesse le proprie minoranze " per favorire le maggiori comunità " sarebbe non solo un Paese che tradisce le speranze e i dolorosi sforzi di questi anni, ma diventerebbe anche un Paese più isolato a livello internazionale.
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